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L’ecosistema di relazioni nelle organizzazioni UFO

Uno sguardo ai legami che alimentano le nuove forme di organizzazione, tra la necessità del contatto e i nuovi bisogni di coordinamento.

Per comprendere gli impatti generati dalle Unidentified Future Organizations abbiamo bisogno di una prospettiva che, insieme, include ed espande gli orizzonti. E cioè pensare le organizzazioni come comunità da far prosperare. Pensiamo sia un modo per far emergere la moltitudine di relazioni di cui oggi hanno bisogno queste entità sempre più diffuse in uno spazio-tempo ibrido.

L’impresa come comunità non è un concetto nuovo: è stato coniato da Peter. F. Drucker, padre del management moderno. E un’altra visione di comunità, più umanistica, l’ha data Adriano Olivetti per la sua fabbrica di Ivrea. Ma allora si parlava di comunità esclusivamente fisiche.

Alcune aziende rafforzano comunità interne per alzare muri

Oggi moltissime organizzazioni si rivedono in quest’idea. Forse allora il tema da affrontare riguarda il perimetro di questo concetto. Come fa notare il sociologo Richard Sennett in “Costruire e abitare” (2018) a volte le aziende rafforzano comunità interne per alzare muri verso l’esterno. Ed è il limite sul quale, in questa fase, si stanno scontrando colossi come Apple, Google e Microsoft: ieri erano luoghi da sogno, oggi incontrano grandi difficoltà nel coinvolgere e trattenere i migliori talenti. Lo dimostra un survey interno lanciato a giugno 2021 nell’azienda fondata da Bill Gates: ne è emerso che almeno il 40% dei suoi collaboratori sta pensando di lasciare l’azienda. La situazione nel quartier generale della Mela segue questo trend: oltre 7 mila dipendenti hanno creato un gruppo interno per difendere il proprio diritto di scegliere quando (e se) tornare in ufficio.

Le comunità chiuse non bastano più: le idee vengono anche dall’esterno

Ma perché sta accadendo tutto ciò, se queste organizzazioni hanno risorse infinite e i loro uffici sono i più costosi mai realizzati? Il campus di Cupertino, per esempio, è la più grande struttura di ingegneria civile negli Stati Uniti. E veniamo alla diversa idea di comunità che può motivare questo ribaltamento. Edifici come il GooglePlex sono pensati per essere comunità-ghetto (è il termine radicale usato da Sennett, che riportiamo alla lettera). Si tratta cioè di comunità chiuse che offrono al proprio interno tutto ciò che una persona può desiderare, svuotando ogni rapporto con l’esterno. Ogni scelta progettuale ambisce a generare una sorta di raggio traente per catturare le menti migliori: benefit di ogni sorta, stanze per svagarsi, cibo gratis ecc. È un approccio che ora non basta più. Perché le idee vengono anche all’esterno, confrontandosi con tutte le dimensioni dell’altro.

L’importanza di alimentare connessioni distanti

Con un paragone azzardato, potremmo dire che Sycamore, il processore quantistico di Google e uno dei progetti più ambiziosi in corso a Mountain View, non sarebbe mai esistito senza un dialogo esterno-interno. La teoria dei quanti, infatti, è nata dopo un viaggio solitario di Werner Heisenberg nell’isola di Helgoland, nel Mare del Nord. L’intuizione poi è stata condivisa con il suo mentore Niels Bohr e di lì è stata alimentata con moltissimi incontri in giro tra Europa e Stati Uniti.

Insomma un edificio, da solo, non è mai bastato per nutrire un’idea. E oggi è ancora più importante alimentare connessioni distanti, che però fanno parte di una storia comune. E sempre più organizzazioni traggono la propria forza intrecciandosi con i territori. Gli uffici, quindi, diventano sempre più luoghi in-completi, da riempire con rituali, gesti e azioni. Sono in-completi perché invitano chiunque ne faccia parte a modificarli in maniera attiva, attraverso gli strumenti che hanno a disposizione.

E questo porta a un’altra riflessione: stiamo riempiendo i luoghi di tecnologia, quando dovremmo cercare quella semplicità che permetta alle comunità circostanti di riempirli come meglio possono. E l’ibridazione rende tutto ciò possibile e praticabile.

Tra connessione e collaborazione

Quando le organizzazioni si agganciano al digitale, assumono la forma di un network. Inizia così un processo di reticolarizzazione, una trasformazione necessaria per connettere tutti. E cioè: anche se sono fuori (da casa, in treno, in spiaggia) posso entrare e comunicare, non solo inviare e ricevere email. Unire le persone in un unico ambiente oggi è semplice. E perfino innescare conversazioni: è sufficiente trovare qualcosa in comune. Ma agganciare le persone a una rete non innesca automaticamente un comportamento collaborativo.

Collaborare davvero ha bisogno di componenti aggiuntive: vivere e con-vivere con qualcuno che la pensa in maniera differente. Oppure, ancora, imparare da qualcun altro che non sappiamo cosa pensi. Ciò richiede tempo (da dedicare a quest’attività – tempo non immediatamente produttivo) e pratica continua (perché è qualcosa di fragile, da allenare). In questo caso non ci sono scorciatoie. Non si possono eliminare passaggi o velocizzarli. E anche se il digitale impone meccanismi di ottimizzazione ed efficientazione, dobbiamo essere consapevoli che la collaborazione ha bisogno di legami. Ed è ciò che anima le organizzazioni UFO.

Le reti di influenza

Per superare il concetto di comunità-ghetto proviamo a zoomare il più possibile le dinamiche relazionali nelle organizzazioni, per avvicinarci alle interazioni tra le singole persone, nei rapporti di vicinanza con i propri team di lavoro. Queste relazioni si basano sull’influenza che ognuno ha sugli altri. Si tratta di dinamiche vitali che si adattano in fretta. E si propagano facilmente nei sistemi reticolari. Questo livello di dettaglio penetra anche tra le maglie rigide delle strutture organizzative, perché le aggregazioni spontanee emergono quando si cerca di trovare una soluzione comune. E producono sempre qualcosa di superiore. Tutto ciò nasce per la nostra naturale inclinazione a cooperare e risolvere qualcosa che – da soli – non siamo in grado di affrontare.

Potremmo formalizzare questo concetto e chiamarlo “rete di influenza”. Un network di questo tipo si sviluppa per generare nuove forme di vicinanza, orientate a un obiettivo comune. Attiva meccanismi che, a loro volta, generano ibridazioni, scissioni e fusioni nei ruoli e nelle posizioni. È una dinamica sociale preziosa, perché permette di agganciare le trasformazioni nel mercato e i cambiamenti nella società. Allora, anziché ragionare in termini di posizioni inamovibili, fissate in base alle competenze, forse potremmo iniziare a pensare job title anch’essi relazionali? E di qui immaginare in rapporto a chi e a che cosa operano e lavorano?

Così, ruoli che si sono affermati come professioni digitali, come i community manager e i community organizer acquisiscono una nuova missione, che punta non solo a coinvolgere e animare le persone su una piattaforma, ma ambisce a trovare nuovi modi per connettere persone al di fuori delle proprie cerchie ristrette. E rendere più porosi gli ambienti collaborativi. Perché non basta abbattere le distanze fisico-digitali. È importante mantenere attivo il desiderio di partecipare all’organizzazione-comunità. Altrimenti avremo creato nuovi ghetti, che funzionano bene al proprio interno, ma generano diseguaglianze ed esclusione. Perché anche la collaborazione può essere una trappola: è più facile quando si incontrano solo le persone con tante risorse e tanto tempo a disposizione. Ed ecco una delle cose più temibili per le organizzazioni UFO: offrire ad alcune persone un’esperienza completa e ad altre una versione diminuita.

Per superare il ghetto dobbiamo problematizzare un cliché spesso citato quando si parla del rapporto tra numero di persone ed efficienza dei gruppi di lavoro e cioè: “un team ideale può essere sfamato con due pizze giganti”.

Si tratta di una delle massime manageriali di Jeff Bezos, che ci invita a non superare questo numero ideale. Ma c’è dell’altro, oltre l’esecuzione. Oggi l’ambizione delle organizzazioni è diffondere a più persone possibili le proprie idee, le innovazioni, i nuovi modelli di pensiero. Estendere cioè le reti di influenza, non solo ottimizzarle. Per allineare, condividere e moltiplicare il valore degli scambi. Quindi, per far prosperare queste reti, evitando però una ipertrofia paralizzante, dovremmo chiederci: di quanta diversità hanno bisogno i nostri progetti e le nostre attività? Di quanti incontri abbiamo bisogno per ottenere un risultato che non sia business as usual?

I legami di interdipendenza

Le reti di influenza si nutrono di libertà. Eppure le organizzazioni hanno bisogno di un coordinamento per funzionare. Le gerarchie, quindi, non devono essere etichettate come “vecchio” né essere sinonimi di rigidità e paralisi. Questa associazione forse deriva da una lettura manichea delle organizzazioni, viste come organismi oppure come strutture. In realtà sono entrambe le cose, perché le imprese non hanno solo una dimensione sociale, hanno componenti artificiali, economiche, tecnologiche ed eredità di epoche precedenti. E perché no, ci sono scelte – anche sbagliate – che continuano a produrre effetti sul presente (è ciò che si chiama isteresi).

Insomma, le organizzazioni UFO non invitano a smantellare le gerarchie. Anzi, per paradosso, la loro assenza è tutt’altro che egalitaria. Lo fa notare l’articolo Why companies need middle managers, apparso sull’Economist. I modelli organizzativi flat – portati come la soluzione a tutti i mali – possono dar vita a gerarchie-ombra in cui si afferma chi fa la voce grossa o chi riesce a imporsi con il proprio carisma.

E quindi, oltre alle aggregazioni basate sulle reti di influenza, c’è bisogno di qualcos’altro, e cioè l’interdipendenza, come la definisce Phanish Puranam, docente e studioso di modelli organizzativi all’Insead. Si tratta di un tipo di legame verticale tra persone: tra capo e collaboratore, tra team leader e figure professionali, tra ruoli apicali e middle management. È ciò che veicola la direzione in un progetto da seguire, ma anche il senso e la cultura di un’organizzazione. Se questi legami di interdipendenza vengono indeboliti o spezzati, se non funzionano tanto in presenza quanto da remoto, allora anche il team più autonomo e responsabilizzato non farà parte dell’ecosistema organizzativo: agirà per sé, non per la comunità.

Influenza + interdipendenza = coesione

Quindi: l’influenza e l’interdipendenza, insieme, sono responsabili della coesione dell’intero sistema. La prima agisce sulla quotidianità: è alimentata con il supporto costante delle persone, anche quando non condividono task. È difficile da visualizzare, ma è la fonte di conoscenza contestuale che determina il benessere, l’innovazione e il pensiero laterale. Una rete di influenza si manifesta quando le persone sanno su chi contare e a chi potersi dedicare.

Influenza e interdipendenza creano un doppio legame di fiducia, che implica una rigenerazione del gergo manageriale. Sotto questa lente, obiettivi e risultati non sono più sovrapponibili, come segnala John Doerr in Measure what matters. Gli obiettivi dipendono infatti dai legami di interdipendenza, e ciò riguarda le gerarchie. Queste ultime non sono più strutture di command & control, agiscono sulle persone – facendo leva sulla responsabilità – coordinano e diffondono obiettivi anche culturali, che riguardano la direzione comune.

I risultati invece sono determinati dalle reti di influenza. Perché si raggiungono risultati nel minor tempo, in modo migliore, con una qualità più elevata o in modo più originale quando le persone – insieme – riescono a dedicare le proprie energie, con volontà e motivazione. Anche in maniera libera.

I rituali

Pensiamo le reti di influenza e i legami di interdipendenza come gli elementi strutturali delle organizzazioni UFO. Ma non basta far sì che questo artefatto fisico-digitale “si regga in piedi”. C’è bisogno di qualcosa che lo animi: qualcosa di pratico, concreto e ripetibile. E cioè nuove tipologie di rituali. Nella nostra quotidianità, i rituali non sono qualcosa di sacro, con un valore posticipato in un’altra vita. Come suggerisce Richard Sennett nel suo “Insieme“, sono qualcosa di trans-relazionale perché hanno un valore immediato. Le persone vi partecipano quindi per accedere a qualcosa e imparare qualcosa.

I rituali diventano tanto più utili quando tempi e spazi non sono strutturati, ma totalmente fluidi. Negli universi ibridi sono i rituali a dar forma alla collaborazione, che altrimenti è senza forma. Possiamo definirli un tipo di conoscenza sociale incorporata nelle pratiche quotidiane.

Rituali sincroni, asincroni e ibridi

I rituali suggeriscono i ritmi, le modalità e contengono tutti gli strumenti più utili a realizzare l’incontro tra persone. Sta quindi alle organizzazioni-comunità dar forma a rituali che possano funzionare: quando tutti si trovano nello stesso luogo (rituali sincroni); quando si collabora in tempi diversi (rituali asincroni); e quando bisogna generare prossimità in un team diffuso in luoghi diversi (rituali ibridi).

C’è però un rischio: i rituali possono ingessare le relazioni se diventano burocratici e procedurali. Quando si riducono a checklist e non ispirano o quando si traducono in pratiche omologanti. E quindi un’organizzazione distribuita non può diventare una struttura di controllo che si occupa della loro esecuzione corretta, rinunciando alla flessibilità. Molto spesso, infatti, nelle organizzazioni distribuite mature si parla della necessità di documentare, aumentando la trasparenza. E, insieme, di potenziare il libero fluire informale delle conversazioni. È quindi un bilanciamento tra condivisione delle informazioni (per abilitare un rituale) e flessibilità (per far emergere nuovi rituali). Equilibrio che va mantenuto perché, quando si incontra un oggetto al di fuori di una procedura, si apre uno spazio di improvvisazione in cui un rituale di esplorazione aiuta le persone, al contrario di una procedura rigida che ne blocca il flusso.

I rituali che funzionano quindi ci aiutano a improvvisare, perché partono da un elenco di istruzioni incompleto che si riempie nel momento in cui i team decidono di utilizzarlo. Si tratta allora di sperimentazioni con un risultato da raggiungere (e nel nostro schema i risultati sono frutto delle reti di influenza, del libero scambio).

Il ruolo dell’empatia

È su questo scambio dialogico necessario che si fondano gli elementi di un termine spesso citato quando si parla di collaborazione: l’empatia. Da questo punto di vista è utile separare l’empatia dai suoi aspetti più immediatamente emotivi, cioè quelli che ci portano a dire “capisco come ti senti”, per concentrarci sui suoi aspetti esperienziali: cioè quelli che richiedono ascolto e apprendimento dell’altro. L’empatia nei rituali è quindi una pratica di scoperta senza fine, per valorizzare nella collaborazione ogni tipo di differenza (culturale e professionale, così come di ruolo e di carriera).

Articolo a cura di Vincenzo Scagliarini, Senior Strategist Logotel