L’intelligenza artificiale generativa sta diventando una compagna costante del lavoro quotidiano. Una collega cibernetica, secondo il professore della Wharton School dell’Università della Pennsylvania Ethan Mollick.
Ci aiuta a scrivere, a sintetizzare, a progettare. Risponde alle nostre domande, struttura le nostre idee, suggerisce alternative. In certi momenti, sembra perfino sapere cosa vogliamo prima ancora che lo chiediamo. Eppure, nonostante la potenza e la rapidità della GenAI, il suo valore dipende in larga parte da noi.
L’intelligenza artificiale non pensa, non capisce, non sente. Ciò che fa è elaborare. E lo fa straordinariamente bene, ma solo a partire da ciò che le viene chiesto, dal contesto che le viene fornito, dalla capacità dell’umano di guidare, correggere, interpretare. In questa relazione emergente tra persone e AI, le capacità umane diventano il vero motore del valore.
Una prospettiva interessante, in questo senso, arriva da un recente studio della ricercatrice post-dottorato della MIT Management Sloan School (la business school del Massachusetts Institute of Technology) Isabella Loaiza e del professor Roberto Rigobon.
I due hanno evidenziato gli attuali limiti dell’AI e si sono chiesti quali capacità umane possano completare queste carenze. Il loro approccio si discosta dal “terrorismo psicologico” che in alcuni casi identifica nell’AI una forza che sostituirà l’uomo, e si concentra su ciò che gli esseri umani possono fare. E, soprattutto, su come uomo e AI si potranno completare a vicenda. In questo articolo approfondiamo la loro ricerca.
I limiti dell’AI
Nella storia dell’uomo le grandi innovazioni tecnologiche hanno sempre suscitato preoccupazioni e diffidenza, ma in generale hanno migliorato la qualità del lavoro, più che peggiorarlo.
L’intelligenza artificiale sembra però essere differente: è una tecnologia così disruptive che può difficilmente essere paragonata con innovazioni del passato e, come scrivono Loaiza e Rigobon, “minaccia di sostituire capacità profondamente connesse alla nostra abilità cognitiva”.
Non solo: “Le precedenti ondate di tecnologia tendevano a impattare negativamente i lavoratori meno qualificati, mentre l’IA sta impattando i lavoratori indipendentemente dal loro livello di istruzione”.
Anche l’AI, però, nonostante i rapidi progressi nel campo, ha tuttora alcuni limiti. Tra gli esempi citati dallo studio del MIT Sloan c’è l’impossibilità di fare inferenze da piccoli dataset o di estrapolare molto oltre i dataset su cui viene addestrata.
E ancora, l’AI entra in grosse difficoltà quando si trova di fronte a problemi che hanno più di due soluzioni possibili o a decisioni che sono basate su esperienze condivise.
Infine, l’IA fatica a prendere decisioni che vanno in una direzione che differisce da ciò che i dati suggeriscono. Pensiamo ad alcune decisioni che, sfidando lo status quo, hanno segnato il progresso nei diritti civili, come ad esempio il suffragio femminile o il movimento per i diritti civili.
Se fosse esistita l’AI, e gli uomini si fossero affidati all’intelligenza artificiale per un parere, probabilmente le “macchine” avrebbero suggerito di fare in modo diverso, come afferma la ricercatrice Loaiza: “Gli esseri umani a volte prendono decisioni non perché i dati ci dicono che è possibile ma perché, per principio, dovrebbe essere fatto”.
Il modello Epoch: le capacità esclusivamente umane
Dopo aver evidenziato gli attuali limiti dell’AI, Loaiza e Rigobon si concentrano su quelle che sono a loro parere competenze esclusivamente umane che possono compensare i limiti dell’intelligenza artificiale. I due ricercatori hanno coniato un acronimo, EPOCH, sviluppando un framework che definisce cinque categorie fondamentali. Analizziamole in breve.
Empatia e intelligenza emotiva
L’intelligenza artificiale è ormai in grado di rilevare le emozioni. Solo gli esseri umani, però, possono creare una connessione significativa, empatica, condividendo ciò che altre persona stanno vivendo.
Presenza, networking e connessione
Chi svolge professioni come l’infermiere, chi assiste gli anziani, chi lavora nel giornalismo sa quanto la presenza fisica sia importante per costruire connessioni. Questa categoria resta appannaggio dell’uomo, che attraverso la presenza riesce a favorire l’innovazione e a collaborare con i colleghi.
Opinione, giudizio ed etica
Resta esclusivamente umana, almeno per il momento, la capacità di navigare in situazioni eticamente complesse mantenendo giudizio critico e rigore morale (a parte, ovviamente, tristi eccezioni).
L’intelligenza artificiale, invece, fatica a comprendere concetti come responsabilità e accountability, molto importanti in alcuni campi come le professioni legali o l’industria scientifica.
È un punto importante, sottolineato anche da Ethan Mollick: l’AI non ha morale. Non distingue il giusto dall’ingiusto, il lecito dall’illegale, il sano dal tossico. Può essere programmata per aderire a certi principi, ma non ha coscienza, né conseguenze da affrontare. Spetta a chi lavora con l’AI assumersi la responsabilità ultima delle decisioni.
Creatività e immaginazione
Sebbene il dibattito su AI e creatività sia molto vasto e in evoluzione, gli autori dello studio sostengono che l’umorismo, l’improvvisazione e la capacità di immaginazione oltre la realtà rimangono abilità unicamente umane, preziose nel lavoro di design e in quello scientifico.
Hope (speranza), visione e leadership
Infine, resta all’uomo la capacità di affrontare sfide nonostante le scarse probabilità di successo. Pensiamo alla decisione di avviare una nuova impresa o a caratteristiche come la grinta, la perseveranza e lo spirito di iniziativa.
L’AI non sostituirà il lavoro che dipende da empatia, giudizio e speranza
Ultimata l’analisi sui limiti dell’AI e sulle capacità esclusivamente umane, i due ricercatori del MIT Sloan hanno utilizzato le loro evidenze per chiedersi quali lavori siano più a rischio sostituzione e quali meno.
Sulla base di un database del del Bureau of Labor Statistics degli Stati Uniti, O*NET, hanno clusterizzato una serie di task lavorativi assegnando a ciascun cluster di compiti tre punteggi sulla base di tre metriche chiave:
- il rischio di sostituzione, cioè quanto l’automazione di un task può portare una AI a sostituire un lavoratore umano;
- il potenziale di aumento, cioè come l’automazione può portare a un aumento di produttività per un determinato compito
- ;il punteggio legato alle categorie EPOCH, che indica quanto un task si basa sulle capacità umane menzionate prima e può dunque essere protetto contro l’automazione.
Dopo aver confrontato questi risultati con un cambiamento aggregato dell’occupazione nella forza lavoro degli Stati Uniti dal 2016 al 2024, i ricercatori hanno concluso che il lavoro che dipende maggiormente da caratteristiche umane come empatia, giudizio e speranza ha meno probabilità di essere sostituito dall’intelligenza artificiale.
Al contrario, task con un alto rischio di automazione comportano un rischio maggiore di perdita del lavoro.
Per Loaiza, i risultati dello studio rafforzano la tesi che l’AI debba completare e aumentare i lavoratori piuttosto che sostituirli e costituisce un messaggio importante anche ai leader aziendali: “In molti campi i lavoratori non possono essere completamente sostituiti. Se stai puntando all’innovazione dirompente o a un business veramente trasformativo, gli esseri umani hanno un ruolo enorme da svolgere”.
Collaborazione, non sostituzione
Lo studio del MIT Sloan è in linea con tanti altri esperti di AI e studiosi fautori della collaborazione tra uomo e macchina. Uno dei più influenti è il già citato professor Mollick, che all’argomento ha dedicato un libro dal titolo emblematico: Co-Intelligence: Living and Working with AI.
Nell’articolo del suo blog in cui parla dell’AI come teammate, Mollick aggiunge che le persona che ci lavorano insieme devono imparare a ricoprire un nuovo ruolo: non quello di produttori di contenuti, ma di orchestratori, selezionatori, validatori.
Chi lavora con l’AI non si limita a usare comandi, ma deve sviluppare consapevolezza, capacità di giudizio, intuito. In altre parole, deve portare, come evidenzia anche la ricerca del MIT Sloan, capacità umane che l’AI non possiede e non potrà mai simulare completamente.
Questa visione collaborativa tra uomo e AI è al centro dell’approccio di alcune realtà innovative nel campo della consulenza. L’Independent design company Logotel, ad esempio, adotta il suo approccio People e community centred anche all’AI, ponendo al centro il miglioramento della vita lavorativa e il benessere delle persone. Non si tratta solo di implementare tecnologie, ma di progettare esperienze in cui l’AI amplifica le capacità umane senza sostituirle, creando ambienti di lavoro più inclusivi e generativi.
Conclusioni: valorizzare ciò che ci rende umani
Lo studio del MIT Sloan ci offre una interessante prospettiva per il futuro del lavoro: non si tratta di competere con l’AI, ma di valorizzare e potenziare quelle capacità unicamente umane che la tecnologia non può replicare. L’empatia, la creatività, il giudizio etico, la capacità di ispirare speranza e di guidare con visione sono competenze che acquistano nuovo valore nell’era dell’intelligenza artificiale.
La vera sfida per le organizzazioni non è quindi implementare l’AI per sostituire i lavoratori, ma creare ambienti in cui tecnologia e umanità si potenzino reciprocamente. Questo richiede un cambio di paradigma: investire nella formazione delle competenze specificamente umane, ripensare i ruoli lavorativi per valorizzare il contributo umano insostituibile, e costruire culture aziendali che mettano al centro la collaborazione uomo-macchina.
Il futuro del lavoro sarà caratterizzato da questa simbiosi: l’AI che amplifica le nostre capacità cognitive e operative, mentre noi esseri umani portiamo significato, direzione e valore umano a ciò che facciamo. In questo scenario, vincono le organizzazioni che sapranno orchestrare al meglio questa collaborazione, creando spazi dove la tecnologia libera il potenziale umano anziché limitarlo.