Negli ultimi anni le aziende hanno imparato a muoversi in un contesto sempre più complesso. La pandemia ha stravolto catene del valore e modelli di business.
La crisi energetica e le guerre in Ucraina e Medio Oriente hanno riportato la geopolitica al centro delle strategie. Le tensioni commerciali tra Stati Uniti e Cina, i dazi su semiconduttori e tecnologie verdi, i rischi di cyber attacchi e l’instabilità politica in molte aree del mondo stanno riscrivendo le regole del mercato globale.
In questo scenario, la tradizionale funzione di risk management potrebbe non bastare più. Alcuni analisti suggeriscono la necessità di integrare i board delle grandi aziende con un nuovo ruolo: il Chief geopolitical officer (CGO).
Un contesto frammentato
Per decenni le aziende hanno beneficiato di un contesto relativamente stabile, segnato dalla globalizzazione e dall’apertura dei mercati. Le catene di fornitura si estendevano senza difficoltà da un continente all’altro e il rischio geopolitico era percepito come una variabile lontana, rilevante solo per chi operava in settori particolarmente esposti.
Oggi non è più così.
Secondo le ricerche del World economic forum, il rischio geopolitico è diventato una delle variabili più critiche per la continuità del business. Non si tratta solo di guerre e sanzioni, ma di regolamentazioni divergenti, controlli sull’export, pressioni sui flussi energetici, barriere digitali e restrizioni all’uso dei dati.
Gli shock non sono più eventi eccezionali, ma elementi strutturali del mercato globale. È in questo contesto che prende forma la figura del Chief geopolitical officer.
Chi è il Chief geopolitical officer
Va detto che il termine Chief geopolitical officer non è una novità. Già negli scorsi anni grandi società di consulenza e riviste specializzate avevano sollevato il tema.
Adesso, però, complice una situazione internazionale sempre più frammentata e instabile, l’idea ha ripreso slancio, come mostrano tra gli altri un articolo di William Dixon pubblicato sul sito del World economic forum e la copertina dell’ultimo numero della MIT Sloan Management Review Italia (maggio-giugno-luglio), dal titolo: Governare un mondo fuori controllo.
Ma chi è il Chief geopolitical officer? Non si tratta di un semplice responsabile delle relazioni istituzionali, né di un lobbista evoluto. Il CGO ha il compito di portare all’interno del board un punto di vista strategico su come le dinamiche geopolitiche influenzano le operazioni, i mercati e persino la cultura organizzativa.
Le sue funzioni includono la valutazione dei rischi geopolitici legati alle catene di fornitura, alle scelte di investimento, all’espansione in nuovi mercati. Deve saper tradurre scenari complessi in piani operativi, anticipare crisi, collaborare con altri C-level – Chief financial officer, Chief Information officer, fino al Chief executive officer – per assicurare che l’organizzazione sia pronta a reagire. In altre parole, il CGO deve portare nel linguaggio aziendale la stessa logica di scenario planning che finora apparteneva solo a think tank, governi e istituzioni militari.
Perché serve adesso
L’urgenza di questa figura non nasce solo da uno scenario geopolitico turbolento, ma anche da un cambiamento culturale che attraversa le organizzazioni. Il fenomeno del Great detachment, fotografato dall’Osservatorio HR Innovation Practice e da Gallup, racconta di lavoratori sempre più disillusi, poco ingaggiati, spesso rassegnati a una condizione di malessere. Solo il 10% dichiara di stare bene nelle tre dimensioni del lavoro (fisica, relazionale e mentale), mentre il 17% si sente davvero coinvolto.
In un contesto del genere, ogni shock esterno rischia di amplificare il senso di precarietà. Le crisi geopolitiche non sono variabili astratte: si traducono in incertezza occupazionale, instabilità dei mercati, pressioni sulle performance. Se le persone già faticano a trovare motivazione, un’organizzazione incapace di leggere e anticipare il contesto internazionale rischia di veder crescere la disconnessione interna.
Il CGO, in questo senso, non è solo un gestore di rischio. È anche un interprete del contesto che può aiutare a restituire senso e direzione al lavoro, proprio in un momento in cui la domanda di senso aumenta, come mostra anche il recente Report Coop 2025 sui consumi e stili di vita degli italiani, integrando scenari geopolitici con strategie HR e di benessere organizzativo.
Implicazioni HR e culturali
C’è un ulteriore punto che collega direttamente la geopolitica alle funzioni HR. In un’epoca in cui il talent shortage è sempre più evidente e il coinvolgimento dei dipendenti è ai minimi storici, il senso di sicurezza e protezione diventa un fattore critico. I lavoratori cercano stabilità, benefit concreti, tutele contrattuali. E cercano anche aziende di cui condividere i valori.
Se l’azienda comunica chiaramente come affronta i rischi geopolitici, se dimostra di avere una strategia per navigare l’instabilità, contribuisce anche a rafforzare il patto psicologico con i dipendenti. Il CGO, collaborando con le HR, può quindi diventare un alleato nella lotta contro il Great detachment e una leva per l’attraction, riducendo l’ansia e restituendo fiducia nel futuro.
Dati, AI e nuove metriche
Gestire il rischio geopolitico oggi significa anche ripensare alle metriche con cui le aziende prendono decisioni. Non basta più monitorare il costo delle materie prime o l’andamento dei mercati finanziari. Bisogna misurare la resilienza delle supply chain, la dipendenza da normative locali, la vulnerabilità a interruzioni tecnologiche.
Qui entra in gioco anche l’intelligenza artificiale. Strumenti di Gen AI possono supportare i CGO nella raccolta e sintesi di informazioni, nel monitoraggio di flussi informativi globali, nella simulazione di scenari. Esattamente come la Gen AI sta cambiando molti altri ambiti, può anche trasformare l’intelligence geopolitica, rendendola più tempestiva e accessibile.
L’azienda che integra un CGO non solo risponde meglio alle crisi, ma sviluppa una capacità predittiva che diventa vantaggio competitivo.
Il ruolo del design
Qui entra in gioco anche il ruolo del design strategico. Chi si occupa di progettazione, come l’Independent design company Logotel, sa bene che il design, con le sue metodologie innovative, ha la capacità di anticipare e dare forma concreta a scenari futuri, mettendo al centro le relazioni tra persone e comunità che dovranno abitare questi futuri.
In questo senso, il design può diventare un alleato prezioso del Chief geopolitical officer: mentre il CGO analizza rischi e opportunità geopolitiche, i designer possono fare envisioning trasformando queste analisi in visioni tangibili e azionabili, creando prototipi di futuro che aiutano i decisori a comprendere le implicazioni delle loro scelte strategiche.
Tra sfide organizzative e opportunità
Introdurre un CGO non è semplice. Significa ridefinire i confini tra funzioni, rompere i silos, creare un linguaggio comune tra risk management, HR, operations e strategia. Significa anche riconoscere che la geopolitica non è un fattore esterno di cui preoccuparsi saltuariamente, ma una variabile permanente della gestione aziendale.
C’è poi la questione della governance. Perché il ruolo sia efficace, il CGO deve avere accesso diretto al board e alle informazioni critiche, senza restare confinato in un’area marginale. In mancanza di questa centralità, il rischio è che la funzione si riduca a un esercizio accademico, senza reale impatto sulle decisioni.
Parlare di geopolitica in azienda non significa solo difendersi dalle crisi. Dove c’è instabilità, ci sono anche opportunità. Una supply chain ridisegnata può aprire nuovi mercati. Una regolamentazione più severa può diventare un vantaggio competitivo per chi è pronto ad adattarsi prima degli altri. Un conflitto che chiude un canale commerciale può spingere a sviluppare partnership in aree emergenti.
Il CGO deve saper leggere queste dinamiche non solo in chiave difensiva, ma anche proattiva. In questo senso, la sua figura è vicina a quella del Chief Strategy Officer, ma con un focus specifico sull’impatto delle variabili geopolitiche.
Da optional a necessità?
La domanda iniziale era: alle aziende serve davvero un Chief geopolitical officer? Alla luce degli eventi degli ultimi anni e delle trasformazioni in corso, sembrerebbe di sì. Non tutte le organizzazioni potranno permetterselo, ma a tutte farebbe comodo dotarsi di competenze geopolitiche integrate nei processi decisionali.
Non si tratta di una moda, ma di un adattamento strutturale a un mondo instabile. Guerre, dazi, instabilità politica e regolatoria non sono fenomeni passeggeri: sono la nuova normalità. Avere un CGO significherebbe dotarsi di una bussola in un mare agitato, ma anche trasformare il rischio in opportunità e rafforzare la cultura organizzativa.
In un tempo di grandi disillusioni, in cui i lavoratori si sentono sempre più distaccati, il compito dei leader è costruire senso e direzione. Il Chief geopolitical officer può diventare uno degli interpreti chiave di questa sfida, portando nelle aziende la consapevolezza che la geopolitica non è solo sfondo, ma parte integrante della vita quotidiana di persone, comunità, organizzazioni e delle stesse imprese.