House of engagement: come progettare, costruire e alimentare l’ingaggio in aziende e organizzazioni

L’engagement non è un’emozione effimera ma uno stato duraturo che si costruisce lavorando su motivazione, impegno e trigger, inseriti in un sistema che fa accadere e alimenta l’ingaggio nel tempo. La riflessione condivisa da Simone Colombo, partner Content & community logotel, in occasione del webinar “Sharing (h)ours) – House of Engagement organizzato da logotel.

Aziende, organizzazioni e persone vivono da tempo una crisi di engagement.

Lo certificano, in maniera fredda, alcuni numeri ormai noti agli addetti ai lavori. In Italia, spiega ad esempio Gallup nel suo report State of the Global Workplace 2025, solo il 10% delle persone si sente ingaggiato sul lavoro. Non va meglio a livello globale: il benessere lavorativo degli under 35 è sceso al 33%, e due dipendenti su tre non hanno fiducia nei propri manager.

Ma che la mancanza di ingaggio sia un problema lo si evince anche dalle conversazioni quotidiane che HR, project manager, responsabili e gestori di team hanno con le persone che incontrano all’interno delle loro organizzazioni.

In occasione del webinar Sharing (H)ours – House of engagement, organizzato dalla Independent design company logotel, Simone Colombo (partner Content & community), ha condiviso con i partecipanti una riflessione che parte dall’etimologia del termine ingaggio per evidenziare gli elementi fondamentali per progettarlo e le strategie per accompagnare e alimentare l’engagement nel tempo.

Cos’è l’ingaggio: una definizione partendo dall’etimologia

L’ingaggio è verso una meta che non ancora si conosce. Quando noi – intesi come leader e manager – diciamo di volere persone e team ingaggiati, intendiamo che li vorremmo pronti e coinvolti nel cercare di raggiungere quello che per noi è importante. Anzi: vorremmo che pensassero che è importante anche per loro.

L’aspettativa in parte è giusta. Ingaggio ha nella sua radice etimologica la parola pegno (il gaggio) che si dà in cambio di qualcos’altro. È una transazione, uno scambio, una promessa.

Tant’è che l’ingaggio può avvenire – e noi  vorremmo che avvenisse – anche quando quel patto non è stato ancora dimostrato e chiarito, anche quando non c’è una nuova promessa da portare. È questo l’ingaggio a cui puntiamo, perché non sempre si è nelle condizioni di chiarire una promessa o di portarne una nuova.

Quindi l’engagement in questo senso è anche una scommessa. Vorremmo persone pronte e motivate a scommettere che quella cosa per cui vogliamo ingaggiarli merita il loro interesse, il loro tempo, la loro energia e competenza.

L’ingaggio è la risposta “ci puoi scommettere!” che vorremmo sentire di fronte alla domanda: “ci sei?”. 

Come progettare l’engagement in azienda: motivazione, impegno e trigger

Ingaggio non vuol dire toccare le corde di un’emozione effimera provocata da un bel copy, da un bel video, da un’immagine. Quella è attenzione, che è un pezzo dell’engagement. Ma l’ingaggio è più un interesse, un’emozione cognitiva più profonda, è uno stato, una disposizione che è più lunga di un’emozione che provo come risposta ad uno stimolo.

Come si progetta l’engagement? Lavorando su tre livelli: motivazione, committment e trigger.

Motivazione: fornire alle persone ragioni per ingaggiarsi

Il primo vero elemento di progettazione è la motivazione. Che cosa significa? Significa incentivare le persone a trovare i motivi per cui mettono a disposizione il proprio “pegno” – quelle conoscenze, competenze, relazioni ed energie che vogliamo attivare.

Se voglio mantenere l’ingaggio devo portare nello scambio nuovi motivi che alimentano questo stato nel tempo, devo preoccuparmi di nutrirlo nel tempo, dare motivi per confermare alle persone che quella scommessa in cambio di qualcosa di più è stata una buona scommessa. Quindi è nel tempo e nella coerenza di quello che promuovo nel tempo che io mi gioco l’ingaggio, non nella novità di un momento. 

Qui va compiuto un cambio di prospettiva fondamentale: un’organizzazione, un leader o un’impresa non ingaggiano direttamente le persone, ma forniscono loro dei motivi che le spingono a ingaggiarsi.

Questo shift non è da poco, perché cambia l’elemento progettuale dietro l’engagement. Bisogna riconoscere quali sono i motivi che spingono le persone ad agire: vedere l’impatto di quello che producono, percepire un impatto sociale, sentire di fare del bene, sentire di fare bene le cose. Le leve motivazionali funzionano in modo diverso per ciascuno e non possono essere date per scontate.

Committment: creare le condizioni per uno scambio vantaggioso

Il secondo elemento di progettazione dell’engagement è il commitment, cioè l’impegno o meglio “in pegno”, ciò che la persona porta in pegno. Bisogna lavorare sulle condizioni in cui le persone percepiscono di essere all’interno di uno scambio vantaggioso, coinvolte in un flusso che rende non solo sostenibile, ma anche motivante il fatto di esserci. E lo scambio non riguarda solo il denaro.

Trigger: attivare l’engagement con sfide concrete

Infine, c’è il trigger, l’innesco: cosa scatena l’azione. Se mi hai dato dei motivi validi per metterci del mio, poi ho bisogno di capire come vuoi che mi attivi. E infatti ingaggiare significa anche “sfidare con un impegno”: quando ingaggio un combattimento chiamo alla prova qualcuno, mi misuro e ci misuriamo le nostre forze reciproche, mettiamo a pegno e misuriamo reciprocamente il nostro valore per ottenere qualcosa in più, entrambi.

Quindi l’ingaggio è uno scambio ma è anche una questione di fair play: quando ci ingaggiamo ci impegniamo tutti e due a stare alle regole del gioco, è un codice d’onore. Ingaggiare un combattimento ha un flavour quasi cavalleresco. All’inizio contano più le condizioni a cui l’ingaggio avviene che la certezza di ottenere qualcosa in cambio, che infatti come abbiamo già scritto è una promessa e anche una scommessa. 

Perché l’engagement è la nuova risorsa scarsa delle organizzazioni

Perché l’urgenza di progettare l’ingaggio si avverte proprio ora, in questo contesto storico?

Intervenendo al WOBI – World business forum 2025 di Milano, il consulente ed esperto internazionale di management Gary Hamel ha detto che siamo nell’epoca dello sconvolgimento, upheaval.

Siamo in un contesto di reframing complessivo dovuto alle disruption sempre più sistemiche nella tecnologia (AI), nella demografia (generazioni e invecchiamento), nel business (nuovi modelli), nelle abitudini di consumo. Un reframing di possibilità di cui non conosciamo l’esito, ma che necessita di persone e competenze per essere costruito in modo positivo.

Hamel ha aggiunto che siamo nell’era della doppia “P”: pericolo e promessa.

Sono questi i due driver del futuro. Il pericolo tira fuori coraggio e creatività, che saranno i fattori che faranno la differenza tra prosperare e cercare di sopravvivere. Anche il pericolo è una dimensione dell’ingaggio, che è sempre un mettersi in gioco.

L’engagement diviene sempre più fondamentale perché siamo nell’era della gift economy, cioè in un paradigma in cui le soluzioni sono così aperte, indefinite e inaspettate che per trovarle dobbiamo mettere le persone nelle condizioni di farci dei doni.

Quindi l’impegno che dobbiamo avere è nel creare le condizioni per cui le persone si attivano e attingono alla propria energia. Ancora una volta ritorna il termine: ingaggio.

Si direbbe che siamo nell’era dell’engagement, l’ingaggio è la nuova risorsa scarsa che dobbiamo cercare e generare. 

Ma la promessa? Che cosa possiamo mettere noi nello scambio che genera ingaggio? È questa la domanda da farci. E qui la sfida per noi diventa ancora più critica, come evidenziato da una serie di fenomeni in corso.

Pensiamo al quite quitting, che ha un impatto reale se lavori con le persone, o alla “corrente di pensiero” riassunta dall’acronimo YOLO (you only live once), che porta a rivedere priorità e piani di vita.

E, ancora, pensiamo all’intergenerazionalità che porta a un degiovanimento quantitativo e qualitativo nelle nostre organizzazioni, dove si assiste a una scarsità di giovani, talenti e competenze, al fenomeno per cui le generazioni più anziane devono reiventarsi, a percorsi di carriera che assumono sempre più una dimensione di orizzontalità e trasversalità verso l’eccellenza del proprio mestiere piuttosto che verso la responsabilità di un’impresa.

Passando in rassegna i fenomeni sopra elencati, sembrerebbe che proprio quando abbiamo più bisogno dell’ingaggio, questo sembra venire meno o non trovare il terreno che avremmo voluto.

Eppure uno spazio c’è: si apre se sappiamo leggere cosa conta di più oggi per le persone al lavoro, come afferma Alessandro Rosina, professore di demografia e statistica sociale all’Università Cattolica di Milano.

La cosa cui non possiamo mai venir meno, pena la perdita dell’ingaggio, è riconoscere, sempre, ogni volta, in modo sistematico con generosità e attenzione tutto quello che le persone decidono di portare di sé. Perché sono disposte a portare tutto di sé solo se sanno che saranno riconosciute e viste in quello che vorranno donare. 

House of Engagement: un framework per costruire e alimentare l’engagement nel tempo

Lo spiraglio che Rosina apre richiede però un sistema per far accadere le cose: un framework in cui motivazione, impegno e trigger non siano solo progettati, ma anche accompagnati, verificati e alimentati nel tempo.

È da qui che nasce l’idea di logotel di parlare di House of engagement: una casa fatta di ingredienti e modalità diverse che aumentano le probabilità che l’ingaggio si verifichi.

Il framework si articola in cinque pilastri fondamentali.

  • Creare le condizioni perché le persone trovino motivi per esserci. Il “me too” di qualcuno che sperimenta e racconta; la visibilità personale; il sentirsi riconosciuti e apprezzati; lo spazio per raccontare di sé; la possibilità di costruire nuovi legami; l’apprendimento. Ognuno deve poter trovare un pezzo che risuona nella propria biografia. E per intercettarlo, bisogna conoscere molto bene le persone con cui si lavora.
  • Alimentare nel tempo quelle condizioni e quei motivi. Bisogna uscire dall’approccio episodico – una campagna lanciata, un corso promosso, un evento creato ad hoc – ed esplicitare il fil rouge. Progettare narrazioni coerenti e potenti che creino un’esperienza continua, in cui la promessa e la scommessa non appaiano effimere ma si sostanzino nel tempo.
  • Prevedere strumenti di riconoscimento continuo. Nulla è più potente dei racconti delle persone: cosa hanno imparato, cosa hanno sperimentato. Interviste che catturano esperienze quotidiane, immagini e framework di ciò che accade nelle organizzazioni e che va intercettato e divulgato in modo continuativo.
  • Fornire strumenti, occasioni, rituali, spazi e tempi in cui mettersi in gioco. L’ingaggio è un movimento culturale, e il rituale è un elemento di sedimentazione potente. Come spiegano i sociologi, nei rituali c’è una funzione manifesta – l’evento, il laboratorio, la conversazione – e una funzione latente: la sedimentazione di relazioni, conversazioni, valori all’interno di una cultura condivisa su cui è più facile costruire le motivazioni che attivano le persone.
  • Accompagnare nel tempo tutti questi elementi. Il segreto è uscire dall’approccio a silos – comunicazione, formazione, assessment, intranet – e identificare i punti di intersezione delle progettualità. È lì che si crea lo spazio di innovazione e di ingaggio, dove viene riconosciuto il ruolo delle persone come prosumer: contributori, attivatori e promotori della cultura dell’engagement.

In conclusione

La House of engagement è un motore di relazioni, spazi di co-creazione, occasioni di sviluppo personale, esperienze di benessere, momenti di sperimentazione.

È un sistema che aumenta, conferma e motiva quel senso di appartenenza che porta le persone a sentirsi parte di una partita, di un viaggio che è da costruire insieme.

Ogni giorno, perché è nella quotidianità che emergono le nuove pratiche che generano nuove soluzioni che diventano poi innovazione quando sono condivise.

Articolo di Simone Colombo, Partner Content & Community logotel

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