L’intelligenza artificiale sta trasformando il mondo del lavoro, ma il suo successo dipende da fattori profondamente umani. Secondo il Global Workforce of the Future 2025 di Adecco Group, sei persone su dieci vedono l’AI come un’opportunità, ma solo il 41% si sente adeguatamente formato. Il vero driver dell’integrazione? Non la tecnologia in sé, ma la fiducia e il purpose che le organizzazioni sapranno costruire.
Introduzione
C’è un filo rosso che attraversa la rivoluzione dell’intelligenza artificiale sul lavoro, ed è meno tecnologico di quanto potremmo immaginare.
Non riguarda modelli linguistici, architetture multimodali o parametri di addestramento. Riguarda qualcosa di molto più umano: la fiducia. O meglio, il rapporto di fiducia che le persone chiedono di avere con il lavoro che fanno, con le organizzazioni per cui lavorano e – sempre di più – con le tecnologie che iniziano ad affiancarli ogni giorno.
Il report Global Workforce of the Future 2025, pubblicato dal Gruppo Adecco, aiuta a mettere a fuoco questa nuova prospettiva. L’analisi, dal titolo Humanity at work: How to thrive in the AI era, ha coinvolto 37.500 lavoratori in 31 Paesi.
Tra i diversi insight contenuti nel report, uno dei più potenti mostra che l’impatto dell’intelligenza artificiale sul modo in cui si lavora dipende in gran parte da come viene percepita, accolta e integrata dalle persone. Ed è qui che entrano in gioco due leve fondamentali: il purpose e la fiducia.
Sei lavoratori su dieci vedono l’AI come opportunità (ma solo il 41% è formato)
Un primo dato sorprendente è che l’introduzione dell’AI non genera necessariamente paura. Anzi: a livello globale, 6 lavoratori su 10 si dichiarano fiduciosi sul fatto che l’intelligenza artificiale porterà benefici concreti alla loro vita professionale. E una percentuale ancora più alta crede che l’AI permetterà loro di concentrarsi su attività più gratificanti, lasciando alle macchine i compiti più ripetitivi.
Ma dietro questa fiducia dichiarata si nasconde una tensione. Perché, se da un lato le persone vedono l’AI come una possibilità, dall’altro faticano a sentirsi pronte. Solo il 41% dei lavoratori afferma di aver ricevuto una formazione adeguata per lavorare con l’intelligenza artificiale. E quasi la metà teme che le proprie competenze diventeranno obsolete nei prossimi anni, una tendenza confermata anche da report autorevoli come il Future of jobs report 2025 pubblicato dal World economic forum.
È il classico paradosso dell’adozione tecnologica: l’apertura c’è, ma mancano gli strumenti per attraversare la trasformazione con consapevolezza. Non basta introdurre l’AI nei processi. Serve accompagnare le persone, costruire capacità nuove, creare contesti in cui la tecnologia sia davvero al servizio del lavoro – e non viceversa.
Perché il senso del lavoro diventa strategico nell’era AI
Nel report Adecco emerge con forza un altro elemento: il bisogno di senso.
“Il senso non è solo il perché che differenzia, ma l’anima che muove e attiva” le persone in un’organizzazione, scrive Nicola Favini, CEO della Independent design company logotel, in un articolo pubblicato sul progetto di ricerca open source dell’azienda, Weconomy.
La grande discontinuità tecnologica che stiamo vivendo rende le persone più attente al “perché” del loro lavoro. E l’AI, accelerando i cambiamenti, rende questa domanda ancora più urgente.
In questo scenario, il purpose non è più un claim aziendale da mettere nella sezione “chi siamo” del sito. È un elemento identitario, una bussola che aiuta a orientarsi in un contesto incerto. Chi sente che il proprio lavoro ha un senso, che contribuisce a qualcosa di più grande, affronta l’evoluzione tecnologica con meno paura e più energia.
Non a caso, il 69% dei lavoratori a livello globale dichiara di considerare il proprio lavoro significativo. Ma la percentuale cala drasticamente tra coloro che percepiscono un disallineamento tra i valori dell’azienda e le proprie aspirazioni personali.
Quando il senso del lavoro è condiviso e coerente, la fiducia nelle trasformazioni (AI inclusa) diventa molto più solida.
Come coinvolgere le persone nella trasformazione
Se l’AI promette di cambiare i lavori, le organizzazioni non possono limitarsi a osservare. Devono diventare parte attiva del cambiamento. E questo significa soprattutto mettersi nella posizione di ascoltare.
Il report mostra infatti che solo il 52% delle persone si sente coinvolta nei processi decisionali interni. Una su due. Un dato che parla chiaramente: la trasformazione tecnologica viene spesso gestita “dall’alto”, senza costruire spazi veri di partecipazione.
Ma l’intelligenza artificiale non è una tecnologia neutra: cambia il contenuto del lavoro, ma anche la relazione tra persone e macchine, tra autonomia e controllo, tra responsabilità e automazione. E queste non sono questioni tecniche: sono questioni organizzative, culturali, manageriali.
Integrare l’AI nei processi richiede quindi un cambiamento di mentalità. Serve una nuova idea di leadership, capace di gestire l’ambiguità e valorizzare il contributo umano nei contesti ibridi.
Serve una cultura della sperimentazione condivisa, dove testare, sbagliare e imparare diventa parte del lavoro quotidiano. Un approccio che, ad esempio, la design company logotel sperimenta con successo al proprio interno e con i propri clienti attraverso modelli di AI adoption community-driven, come dimostra il case study Dojo.
Serve, soprattutto, il coraggio di redistribuire il potere decisionale, rendendo le persone protagoniste della trasformazione e non semplici destinatari di strumenti imposti.
Le competenze che l’AI non può sostituire
La trasformazione guidata dall’AI non chiede solo nuove competenze tecniche. Anzi: secondo il report, i lavoratori indicano nella comunicazione efficace, nella capacità di problem solving e nella gestione delle relazioni i veri asset del futuro.
L’intelligenza artificiale – anche la più avanzata – non è (ancora?) in grado di costruire fiducia, mediare conflitti o motivare un team. Non sa leggere i segnali deboli di una crisi, né valorizzare la diversità in una squadra. Ecco perché, se vogliamo che l’AI liberi il potenziale umano, dobbiamo investire proprio su quelle competenze che restano appannaggio delle persone.
Questo implica anche ripensare la formazione. Non solo come aggiornamento tecnico, ma come leva strategica per sostenere l’adattabilità, l’empatia, la capacità di apprendere in contesti nuovi. In altre parole: per costruire fiducia. Nella propria capacità di affrontare il cambiamento, ma anche nell’azienda che lo rende possibile.
Integrare l’AI è una questione di relazione (prima che di efficienza)
In sintesi, ciò che emerge dal report Global Workforce of the Future 2025 è un messaggio chiaro: integrare l’intelligenza artificiale non può essere un esercizio di pura efficienza. È – prima di tutto – un esercizio di relazione.
La tecnologia avanza, ma la fiducia si costruisce. Il cambiamento accelera, ma il senso si co-costruisce. E se le organizzazioni vogliono davvero trasformare l’AI in valore, devono iniziare da qui: dalle persone, dalle loro paure e dalle loro ambizioni, dal loro bisogno di appartenere e contribuire, dalla loro richiesta di essere ascoltate.
Perché non c’è trasformazione tecnologica sostenibile senza una cultura della fiducia. E non c’è fiducia possibile, se non partendo da un purpose condiviso.