L’intelligenza artificiale non ha trasformato solo gli strumenti che usiamo, ma sta mettendo in discussione le basi stesse dei sistemi di valutazione delle persone in azienda.
In un mondo in cui gli strumenti automatici scrivono bozze, generano codice, completano analisi e supportano decisioni, la domanda “chi è bravo e chi no?” assume una nuova complessità.
È una riflessione che inizia a occupare spazio nel dibattito pubblico. L’articolo AI makes measuring work performance a lot trickier. How do companies adapt? pubblicato su The Conversation, evidenzia che “il modo in cui misuriamo il valore umano deve cambiare” perché molte organizzazioni continuano a valutare le performance come se ogni lavoratore operasse da solo, ignorando che spesso collabora con un alleato e/o collega digitale.
In Italia, la giornalista di Linkiesta Lidia Baratta nella sua newsletter Forzalavoro sottolinea che “con l’intelligenza artificiale serve un nuovo metodo per ‘misurare’ il lavoro”, ponendo domande forti: l’adozione dell’AI altera il significato stesso dell’essere “bravi” nel proprio lavoro? E chi detiene davvero il merito quando una parte del lavoro è delegata a una macchina?
Strettamente collegato alla valutazione della “bravura” è il tema delle expertise: “Quando gli strumenti di IA hanno molte delle risposte, qual è il valore degli esperti più costosi?”, è la domanda che appare su un recente articolo pubblicato sulla MIT Sloan Management Review.
È evidente che non basta più misurare input e output tradizionali: ore di presenza, compiti assegnati, dashboard di KPI. L’AI, infatti, intreccia la performance umana e quella automatica. Occorre ripensare il “come” e il “cosa” della valutazione e questo passaggio non è esente da criticità.
Valutare le persone nell’era AI: le criticità
Una prima criticità riguarda la trasparenza dell’intervento dell’AI nel lavoro.
Quando un modello genera un testo, una proposta oppure una bozza di decisione, diventa complicato stabilire quale parte del risultato sia attribuibile all’umano e quale alla macchina.
Questo solleva questioni etiche, operative e in alcuni casi sta determinando anche un nuovo fenomeno, l’AI shame. Secondo un sondaggio condotto su oltre mille lavoratori statunitensi, i cui risultati sono stati pubblicati su Fortune, quasi la metà dei dipendenti (48,8%) ammette di nascondere l’uso dell’IA al lavoro per evitare giudizi.
Se si valuta un collega che ha potuto contare su strumenti avanzati, in effetti, va considerato che l’efficienza non deriva esclusivamente dalla sua performance individuale.
L’articolo di The Conversation sottolinea proprio questo: molti lavoratori della conoscenza usano l’AI (oltre il 75 %), ma le organizzazioni li valutano come se fossero ancora “solisti”.
Una seconda criticità riguarda la competenza nel gestire e interpretare gli output generati dall’AI. Se il lavoratore non è formato a usare questi strumenti, o se non è consapevole delle loro limitazioni, la valutazione rischia di diventare ingiusta o fuorviante.
Infine, la dimensione relazionale e collaborativa assume un peso ancora maggiore: l’AI rende il lavoro sempre più ibrido, combinando umano e macchina. Le performance individuali non chiedono solo esiti, ma anche capacità di orchestrazione con strumenti intelligenti, di gestione dell’incertezza, di adattamento a nuovi ruoli e di ripensamento di ruoli “vecchi”.
L’orchestrazione è ad esempio centrale per i content e community manager, cioè persone che operano all’interno di community digitali B2B e B2C. L’Independent design company logotel, che da oltre 30 anni progetta, realizza e anima digital business community, sta ad esempio guidando attivamente la trasformazione dei content creator in content orchestrator per sfruttare la Gen AI per potenziare il content e il community management.
L’orchestrazione diviene fondamentale anche per ripensare l’expertise, come spiega il già citato articolo What’s Your Edge? Rethinking Expertise in the Age of AI. Gli esperti, nell’era dell’AI, sono coloro che sanno “porre domande migliori e riconoscere le zone grigie”. Il loro valore non è tanto nel contenuto, quanto nel contesto.
E i leader – come spiega l’autore dell’articolo Ravikiran Kalluri, docente presso la Northeastern University – dovrebbero concentrarsi sullo sviluppo della meta-competenza delle persone: “La loro capacità di orchestrare gli strumenti di IA, sintetizzare informazioni tra diversi domini e creare connessioni creative che gli algoritmi non possono fare”.
Il problema? È che valutare queste soft skill è molto più complesso che misurare output quantitativi.
Nuove metodologie per valutare le persone: dall’output all’orchestrazione
Come devono dunque cambiare le modalità di valutazione per tenere conto di questa nuova realtà? Innanzitutto, occorre passare da una logica di misura “fine a sé stessa” a una logica di contesto: valutare non solo ciò che una persona produce, ma come lo produce, con quali strumenti e in quale relazione con l’AI.
Bisogna valorizzare la capacità del lavoratore di collaborare con l’AI, di discernere quando utilizzarla, di integrare i risultati nel proprio compito.
Secondariamente, serve una ridefinizione dei parametri di merito: al di là del volume di output, bisogna considerare la qualità, la creatività, la capacità di gestire modelli intelligenti, la responsabilità nell’uso dell’AI. In pratica, non basta che il sistema funzioni: la persona deve saperlo governare.
Una persona che utilizzi l’AI in modo acritico, per produrre un’enorme quantità di contenuti formalmente ineccepibili, ma vuoti di sostanza, aumenterà solo l’AI workslop, senza generare vero valore per i colleghi e la sua azienda.
Terzo, l’organizzazione deve dotarsi di strumenti di governance e di formazione che rendano trasparente il rapporto tra umano e AI, per evitare che la valutazione diventi un semplice riflesso di efficacia automatica. Le linee guida sull’uso dell’AI, la formazione sull’AI literacy e la cultura della responsabilità diventano fattori chiave affinché la valutazione sia equa e significativa.
Infine, la valutazione non può più essere un evento isolato, ma deve tradursi in un processo continuo. In un contesto dove l’AI evolve rapidamente, anche le metriche devono essere dinamiche: le organizzazioni devono prevedere momenti di riflessione sull’adeguatezza degli strumenti, sui risultati degli output generati, sulla collaborazione uomo–macchina. In questo modo la valutazione diventa occasione di apprendimento e non solo giudizio.
Valutazione delle persone e AI: il nuovo ruolo di HR e leadership
Per le funzioni HR e per i leader questa trasformazione rappresenta una svolta. Innanzitutto, devono rivedere i sistemi di performance management, tenendo presente che i modelli classici – presenze, ore lavorate, numero di task completati – sono ormai parziali. Servono indicatori che rispecchino il nuovo ecosistema collaborativo: competenza nell’uso dell’AI, qualità del contributo umano, collaborazione con strumenti intelligenti.
I leader devono assumere un ruolo di guida in questo passaggio: non solo come misuratori, ma come interpreti del rapporto tra persone e AI, facilitatori dell’apprendimento e dello sviluppo delle competenze nuove. Devono promuovere fiducia e responsabilità, assicurare che l’uso dell’AI sia trasparente, etico e ben integrato.
Inoltre, la valutazione nel tempo dell’AI richiede un cambio di mindset: da “valutare cosa fai” a “valutare come lo fai in relazione a cosa cambia”. Le persone vogliono sapere che il loro lavoro è significativo anche quando parte del compito è automatizzato. E questo significa che la leadership deve saper raccontare il purpose del lavoro, spiegando come l’AI lo rende più alto, più agile e paradossalmente più umano.
Sistemi di valutazione AI-ready: valorizzare le persone nell’era degli algoritmi
In conclusione, l’introduzione dell’AI nei processi lavorativi non richiede solo un aggiornamento tecnologico. Richiede un aggiornamento culturale e organizzativo.
Misurare le persone sul lavoro non significa solo assegnare numeri e premi. Significa capire come la collaborano con strumenti intelligenti, come partecipano alla trasformazione, come mantengono il valore umano nel tempo dell’algoritmo.
Le aziende che riusciranno a costruire sistemi di valutazione coerenti con questa realtà avranno non solo una forza lavoro più motivata, ma anche una performance più solida e sostenibile.