Costruire engagement con l’empatia

L’empatia può essere la chiave per aumentare l’engagement tra aziende e consumatori, come rivela un recente sondaggio. Eppure, la maggior parte delle persone non si sente davvero “visto” dalle aziende. Come colmare questo gap e trasformare la connessione umana in vantaggio competitivo.

empatia per costruire engagement tra brand e consumatori

Per lungo tempo l’empatia è stata considerata qualcosa di troppo “soft” per trovare posto nel mondo del lavoro e del business. Un elemento accessorio, magari utile in certi contesti relazionali, ma difficilmente misurabile, replicabile o addirittura strategico.

Un atteggiamento che è cambiato dopo che numerosi studi hanno evidenziato come la capacità di comprendere e condividere i sentimenti altrui abbia un ruolo fondamentale per costruire relazioni di fiducia, migliorare la comunicazione e potenziare la collaborazione all’interno di aziende e organizzazioni.

Anche in un’epoca sempre più segnata dalla tecnologia, l’empatia sta emergendo come una leva organizzativa chiave, capace di generare connessione, fiducia e performance. Non solo tra le persone nei team, ma anche tra clienti e brand.

È proprio su quest’ultimo aspetto che si concentra Jamil Zaki, professore di psicologia alla Stanford University e direttore dello Stanford Social Neuroscience Lab, secondo cui l’empatia è diventata uno dei principali driver per costruire engagement tra brand e consumatori. E caratterizzerà le relazioni con i clienti nel prossimo decennio, che sarà improntato al ripristino della connessione umana su larga scala.

L’empatia non è un dono, ma una competenza

Zaki ha condiviso le sue riflessioni in un articolo apparso sull’Harvard business review, in cui sono citati i risultati di una recente indagine globale condotta su quasi 12.000 consumatori in 11 Paesi.

Il 79% degli intervistati dichiara di prendere decisioni d’acquisto in base alla capacità di un brand di dimostrare empatia. Un dato che supera persino l’importanza delle recensioni online o dei consigli di amici e parenti. E il 61% dei rispondenti afferma di essere disponibile perfino a pagare di più per un’azienda che si mostri realmente empatica nei propri confronti.

Eppure, il divario tra aspettative e realtà è ancora ampio: il 78% delle persone non percepisce una reale cura da parte delle aziende. È quello che si chiama empathy gap.

Questo scollamento non è solo un problema relazionale. È un limite competitivo, una frizione nel rapporto tra marca e persone, che può compromettere la fiducia, generare abbandono e ridurre la loyalty. Ma anche una grande opportunità per chi sceglie di colmarlo.

Contrariamente a quanto si pensa, l’empatia non è un tratto fisso della personalità. Non è un dono riservato a pochi. È una competenza – ed è una delle più importanti secondo il Future of Jobs report 2025 del World economic forum – che può essere sviluppata, allenata, scalata. Attraverso i dati, la formazione, il design organizzativo. E che, se integrata nelle pratiche aziendali, può portare benefici misurabili sia all’interno, tra le persone, sia all’esterno, verso clienti e stakeholder.

Dall’ascolto al redesign: rendere l’empatia un’infrastruttura

Come ogni competenza, anche l’empatia ha bisogno di contesto. Per essere realmente efficace, deve smettere di essere considerata un’attitudine individuale e diventare parte dell’infrastruttura culturale e operativa dell’organizzazione.

È la lezione che arriva ad esempio dalla Cleveland Clinic, uno dei più noti ospedali americani. Quando un potenziale paziente decise di rivolgersi altrove, non per la qualità delle cure ma per la percezione di “scarsa empatia”, la leadership decise di cambiare approccio. Fu creata un vero e proprio patient experience office, con un chief experience officer dedicato, e si avviò un percorso di ascolto, redesign dei percorsi di cura e coinvolgimento attivo dei pazienti nella rilevazione della soddisfazione. Il risultato? Miglioramento nei ranking di soddisfazione, maggiore fedeltà e un impatto positivo anche sull’engagement interno.

Portare empatia nei processi, dunque, significa progettare esperienze capaci di vedere il mondo dal punto di vista dell’altro. Vuol dire mappare i journey, intercettare i momenti di vulnerabilità e costruire risposte coerenti, sincere, concrete. E serve che siano le leadership a guidare questa trasformazione: non come un optional valoriale, ma come una scelta strategica.

Formare alla connessione, per generare impatto

Un’organizzazione empatica è un’organizzazione che investe nella formazione. Che aiuta le persone a mettersi nei panni degli altri, a riconoscere segnali emotivi, a modulare il proprio stile comunicativo in funzione del contesto.

Lo ha fatto ad esempio Zurich Insurance Group, che ha dedicato oltre 46.000 ore di formazione all’empatia, coinvolgendo circa un quarto del proprio personale in programmi immersivi e role play basati su scenari reali. L’obiettivo non era solo migliorare il servizio al cliente, ma far emergere un nuovo modo di lavorare. E i risultati non si sono fatti attendere: sette punti in più nel Net Promoter Score (uno dei più diffusi sondaggi di soddisfazione dei clienti per misurare la customer experience) e un miglioramento tangibile nel brand advocacy.

Ma l’impatto non è solo esterno. Le aziende che scelgono di formare alla connessione ottengono anche un aumento del benessere interno, dell’engagement e del senso di appartenenza. Perché chi sente di poter fare la differenza nella vita degli altri trova anche un senso più profondo nel proprio ruolo.

E costruire significato è uno degli ingredienti più solidi della motivazione, che a sua volta è uno degli elementi costitutivi dell’ingaggio, come ha spiegato Simone ColomboPartner Content & community della Independent design company logotel – in un evento della design company dedicato proprio a come costruire e alimentare l’engagement in aziende e organizzazioni.  

Tecnologia ed empatia: un equilibrio possibile

L’ingresso massiccio dell’intelligenza artificiale nei processi di relazione con il cliente ha sollevato nuove domande. Più del 70% degli utenti intervistati nella ricerca citata dubita della capacità dei chatbot di essere realmente empatici, e oltre il 60% teme che l’AI stia distruggendo le relazioni con i clienti. Il rischio è che l’efficienza generata dalla tecnologia vada a discapito della connessione umana.

Ma non è detto che debba essere così. Se progettate con attenzione, le soluzioni AI possono diventare uno strumento per migliorare l’esperienza, non per impoverirla. Alcune aziende hanno implementato AI assistant capaci di gestire le richieste semplici, ma anche di “passare il testimone” a operatori umani quando la situazione lo richiede. In questo modo si garantisce un equilibrio tra automazione e contatto umano, ottimizzando i tempi senza sacrificare la relazione.

Il punto è riconoscere che l’empatia non si oppone alla tecnologia. Piuttosto, può coesistere con essa, guidando la progettazione di esperienze più attente, rispettose e vicine alle persone.

E c’è chi si spinge anche più oltre: in un’intervista pubblicata sul magazine logotel, il ceo di Great Pixel Alberto Maestri ha parlato di empatia artificiale – cioè un rapporto collaborativo e di “comprensione” più profonda e culturale tra persone e macchine –, individuandola come una delle evoluzioni future della co-abitazione tra persone e intelligenze artificiali.  

Per un futuro più connesso

Se il decennio passato è stato dominato dalla corsa alla digitalizzazione, secondo il professor Jamil Zaki il prossimo sarà quello della (ri)umanizzazione. Empatia, ascolto, relazione torneranno ad essere elementi centrali nelle strategie di customer experience e nelle culture organizzative. Non come accessori etici, ma come leve decisive per differenziarsi, crescere, costruire fiducia duratura.

Per riuscirci, servirà un cambio di mentalità. Dalla visione dell’empatia come soft skill a quella di competenza strategica. Dal pensiero tattico alla progettazione di lungo periodo. Dalla formazione individuale alla trasformazione sistemica.

In un mondo che corre verso l’iper-efficienza, chi saprà prendersi il tempo per comprendere, accogliere, accompagnare farà davvero la differenza. Perché alla fine, anche nel futuro più automatizzato, restiamo tutti esseri umani in cerca di connessione.