Jobpocalypse: tra allarmismi e dati reali, come l’AI sta impattando sui lavori entry-level

La jobpocalypse è davvero alle porte? Diversi studi evidenziano l’impatto dell’AI sui ruoli entry-level. Tra allarmi e dati reali, analizziamo come le aziende possono trasformare la sfida in opportunità per i giovani talenti.

Sta arrivando la jobpocalypse? A lanciare l’allarme di una grave crisi lavorativa a causa dell’intelligenza artificiale è stato di recente il quotidiano inglese The Guardian, riprendendo uno studio della British Standards Institution, ente certificatore inglese.

Il neologismo jobpocalypse – coniato probabilmente dal giornalista del Guardian e non presente nel report originario – condensa in sé l’ansia collettiva per l’impatto dell’intelligenza artificiale sul mondo del lavoro. Una delle paure principali da sempre connessa all’AI, anche se diversi report tra cui il Future of Jobs Report 2025 del World Economic Forum hanno evidenziato che, più che eliminare i posti di lavoro, l’AI trasformerà molti dei lavori per come oggi li intendiamo.

Il neologismo jobpocalypse ha comunque avuto molta fortuna e gli articoli che lo raccontano si moltiplicano: l’AI sarebbe pronta – e in alcuni casi lo starebbe già facendo – a spazzare via le posizioni entry-level, rendendo superflue le figure più giovani e inesperte.

Non è – è bene precisarlo – solo una narrazione. Alcune statistiche sembrano confermarlo: negli Stati Uniti, per esempio, la disoccupazione tra i neolaureati è cresciuta, soprattutto nei settori più esposti all’automazione come programmazione, marketing, customer service e sales.

Eppure, come spesso accade, la realtà è molto più sfaccettata. Alcune ricerche sottolineano come la disoccupazione in aumento tra i neolaureati statunitensi sia causata da più fattori – non solo dall’avvento di ChatGPT – e soprattutto sia in corso già da anni.

Secondo il Budget Lab dell’Università di Yale, nei 33 mesi successivi al lancio di ChatGPT il mercato del lavoro americano non ha mostrato alcuna disruption significativa a livello aggregato. Anche per i ruoli entry-level, tradizionalmente più vulnerabili, i segnali di impatto dell’AI rimangono deboli e ambigui: la ricerca non può escludere che altri fattori economici – come il rallentamento generale del mercato – stiano giocando un ruolo più determinante dell’intelligenza artificiale stessa.

Inoltre, se da una parte l’AI sostituisce alcune funzioni di base, dall’altra sta ridisegnando profondamente il modo in cui si entra nel mondo del lavoro e si costruisce esperienza.

Una lente diversa per vedere questa questione potrebbe quindi essere non focalizzarsi su “quanto lavoro sparirà”, ma su “che tipo di lavoro nascerà” e come le aziende potranno sostenere una nuova generazione di professionisti in un ecosistema che cambia.

L’impatto dell’AI sui ruoli entry-level: cosa dicono i dati

Il tema della job apocalypse non è nuovo sulle pagine del Guardian. Già nel 2024, il quotidiano britannico aveva ospitato un altro articolo dall’identico titolo allarmante. In quel caso, l’allarme arrivava da un report dell’Institute for public policy research (IPPR), che parlava di una potenziale perdita di 8 milioni di posti di lavoro nel solo Regno Unito a causa dell’AI.

Evidentemente, come abbiamo già scritto, si fa leva sul fatto che la “paura della sostituzione” da parte dell’AI sia una delle più diffuse tra le persone, come avvenuto anche per altre innovazioni tecnologiche del passato.

Veniamo ora allo studio che ha dato il via al dibattito più recente. Si chiama Evolving Together: AI, automation and building the skilled workforce of the future e contiene in effetti dati che meritano attenzione.

Secondo il 39% degli 850 business leader intervistati in otto Paesi diversi, l’AI ha già ridotto i posti di lavoro entry-level, mentre il 43% prevede che altre posizioni junior saranno tagliate entro un anno sempre per via dell’intelligenza artificiale.

Ma c’è un dato ancora più significativo: il 41% delle aziende intervistate ha dichiarato che ormai, ogni volta che emergono nuove necessità lavorative, è prassi aziendale esplorare soluzioni basate sull’AI prima di prendere in considerazione l’ipotesi di assumere un essere umano. Questo rappresenta un vero cambio di paradigma nelle politiche di assunzione.

Il report evidenzia il rischio che un’intera generazione – che ha già subito danni nella formazione scolastica a causa del Covid-19 e si trova davanti a un mercato del lavoro ostico per chi vi si affaccia per la prima volta – non sviluppi mai le competenze che si acquisiscono attraverso l’esperienza entry-level. È la Generation Jaded, dall’acronimo jobs automated, dreams eroded (lavori automatizzati, sogni erosi).

I dati della ricerca Stanford

Il report della BSI non è il solo che sottolinea l’impatto dell’AI sul mondo del lavoro. Lo studio Canaries in the Coal Mine condotto da tre ricercatori dell’Università di Stanford ha mostrato come, dopo l’arrivo di ChatGPT, l’occupazione nella fascia 22-25 anni sia calata del 6% nei ruoli più “AI-exposed”.

È un dato significativo, che fotografa un cambiamento strutturale. Una possibile spiegazione è che le tecnologie generative eccellono nei compiti che richiedono conoscenze formalizzate – quelle acquisite attraverso l’istruzione formale. Al contrario, sono meno efficaci in contesti dove serve un sapere implicito che si sviluppa attraverso l’esperienza diretta, l’osservazione sul campo e la pratica ripetuta.

Il paradosso è evidente: l’AI automatizza proprio quei compiti più semplici e ripetitivi che, da sempre, rappresentano il terreno di apprendimento per chi muove i primi passi nel lavoro. Attività come sintetizzare dati, preparare brief, redigere report o rispondere a richieste standard sono spesso le prime ad essere affidate a modelli generativi.

Il risultato è che i “lavori scuola” – quelli che insegnavano a osservare, a interpretare, a fare esperienza – stanno scomparendo.

La crisi dell’occupazione giovanile: cause precedenti all’intelligenza artificiale

Sarebbe un errore però attribuire tutto questo esclusivamente a ChatGPT o all’onda dell’AI generativa.

In primo luogo, come sottolineano gli stessi ricercatori nella loro analisi e come suggerisce anche il titolo della loro ricerca, questi segnali rimangono ancora deboli e potrebbero riflettere tendenze del mercato del lavoro più ampie, non necessariamente causate dall’intelligenza artificiale. La cautela nell’interpretazione è d’obbligo, data la complessità dei fattori in gioco.

Inoltre, come sottolinea un’analisi di Employ America, la crisi dell’occupazione giovanile era già visibile ben prima del 2022.

Negli Stati Uniti, il numero di neolaureati aveva superato da tempo quello dei ruoli disponibili, mentre le aziende adottavano modelli di lean staffing – meno assunzioni a tempo pieno, più contratti a progetto, più esternalizzazione.

L’intelligenza artificiale, in questo scenario, non ha inventato il problema: lo ha accelerato. Ha reso ancora più visibile il divario tra le competenze che il sistema formativo produce e quelle che le imprese effettivamente cercano. E lo ha fatto in un momento di transizione in cui le stesse organizzazioni stanno ripensando le proprie strutture, i modelli di lavoro ibrido, i processi di collaborazione e leadership.

La fine dei lavori di ingresso (per come li conoscevamo)

Un report del Burning Glass Institute, No Country for Young Grads, spiega bene la dinamica, almeno per quanto riguarda il mercato del lavoro statunitense: il calo dei lavori di ingresso non è frutto di un solo fattore, ma di una combinazione di forze che si sommano. Da un lato, la spinta dell’automazione; dall’altro, un eccesso di offerta di laureati; infine, la tendenza a costruire organizzazioni sempre più snelle.

Il risultato è che molti ruoli di primo livello – quelli che un tempo servivano a “imparare facendo” – vengono automatizzati o non vengono più creati.

AI e lavoro: dalla sostituzione alla collaborazione uomo-macchina

Questo significa che i giovani non servono più? No, ma che serve un modo diverso per valorizzarli. E un esempio arriva da quelle aziende che non stanno chiudendo le porte ai giovani, ma stanno ripensando il career design fin dalle basi. Stanno ridisegnando i programmi di early career hiring per permettere alle persone di costruire quella tacit knowledge che l’AI non può replicare.

In queste tipologie di imprese si sta affermando una logica diversa: non quella dell’AI che rimpiazza il lavoro umano, ma dell’AI che amplifica le capacità umane. È una distinzione cruciale.

Le tecnologie generative sono straordinariamente efficaci nel ridurre la parte “meccanica” del lavoro: ricerca, sintesi, scrittura, calcolo. Ma lasciano spazio – e anzi, richiedono – nuove competenze relazionali, interpretative e creative.

Questo spostamento, se ben gestito, può diventare un vantaggio competitivo anche per i giovani. L’AI libera tempo e risorse, ma serve riempire quello spazio con attività ad alto valore cognitivo e umano: interpretazione dei dati, ascolto del cliente, progettazione di esperienze, pensiero critico, collaborazione trasversale.

In altre parole, servono ruoli che aiutino le persone a “pensare con l’AI”, non a “lavorare al posto dell’AI”.

Il ruolo delle aziende: formare, non sostituire

In questo nuovo scenario, la responsabilità più grande ricade sulle aziende. Leader e manager non possono limitarsi a osservare l’impatto dell’AI sul mercato: devono anticiparlo, progettando modelli di sviluppo che uniscano tecnologia e apprendimento.

Ripensare gli entry-level jobs significa analizzare con precisione le attività di ciascun ruolo, capire dove l’AI sostituisce e dove invece aumenta il contributo umano. Significa adottare nuovi approcci, come quello community-driven sperimentato dalla design company Logotel, per affrontare con efficacia l’AI adoption e costruire ambienti e processi di apprendimento che aiutino le persone a sviluppare la AI fluency – la capacità di comprendere, guidare e integrare l’intelligenza artificiale nel proprio lavoro.

Ma significa anche ridare centralità al mentoring, alla sperimentazione, all’errore come forma di conoscenza. Perché se è vero che l’AI accelera tutto, è altrettanto vero che nessun algoritmo può sostituire il processo di crescita che trasforma un neolaureato in un professionista.

Il valore dell’esperienza nell’era dell’automazione

Uno dei rischi più grandi di questa fase è credere – come probabilmente immaginano quegli imprenditori del report del BSI che investono nell’AI per “tagliare” posti di lavoro entry-level – che l’esperienza possa essere “saltata”. Ma l’esperienza è un processo di sedimentazione, non un risultato immediato. È fatta di sfumature, di intuizioni, di piccoli apprendimenti che nascono da situazioni impreviste. È ciò che consente alle persone di gestire l’ambiguità, prendere decisioni in contesti incerti, dare senso alle informazioni.

Se l’AI impara dai dati, gli esseri umani imparano dal contesto. E il contesto – fatto di relazioni, errori, emozioni – resta il luogo dove si costruisce la competenza più difficile da replicare: il giudizio.

Dall’ansia tecnologica alla progettazione del futuro

Per questo parlare di jobpocalypse rischia di essere fuorviante. La sfida non è sopravvivere all’AI, ma imparare a progettare con essa.

Le aziende più consapevoli stanno già spostando il focus dal taglio dei costi alla costruzione di capacità nuove. Non si limitano ad adottare nuovi strumenti, ma creano una cultura che favorisce la collaborazione tra intelligenze diverse – umane e artificiali. Quella co-intelligenza di cui parla Ethan Mollick in uno dei suoi libri più noti.

Il futuro del lavoro non sarà un campo di battaglia tra persone e macchine, ma un ecosistema ibrido dove i due mondi dovranno coevolvere. E in questo equilibrio, le nuove generazioni avranno un ruolo decisivo: saranno loro a insegnarci come integrare l’AI nella quotidianità, come usarla in modo creativo, come mantenere umano un lavoro che diventa sempre più algoritmico.

Costruire un nuovo ponte tra formazione e lavoro

L’AI può trasformare i lavori entry-level in un laboratorio di possibilità. Ma serve che le aziende, le università e le istituzioni si assumano la responsabilità di costruire un ponte nuovo tra scuola e impresa, tra teoria e pratica, tra dati e giudizio.

Non si tratta di difendere il passato, ma di immaginare un futuro dove la tecnologia non chiuda porte, ma apra nuove strade di apprendimento.

In questo senso, l’AI può diventare una grande alleata: non quella che sostituisce, ma quella che amplifica. Non quella che crea paura, ma quella che restituisce tempo, libertà e spazio per tornare a fare ciò che sappiamo fare meglio – pensare, interpretare, connettere.

Alle aziende spetta il compito di riprogettare l’ingresso nel mondo del lavoro affinché i giovani talenti possano costruire competenze che nessuna AI potrà mai replicare.