Scalare l’AI in azienda: le tre barriere principali e come superarle
Scalare l’AI oltre la sperimentazione è la nuova sfida per le aziende. Lo State of AI Report 2025 identifica le tre barriere che frenano le imprese: tempo, privacy e competenze.
Scalare l’AI oltre la sperimentazione è la nuova sfida per le aziende. Lo State of AI Report 2025 identifica le tre barriere che frenano le imprese: tempo, privacy e competenze.
L’adozione dell’intelligenza artificiale nelle imprese italiane sta raggiungendo un punto critico: dopo la fase di sperimentazione, scalare l’AI diventa la vera sfida. Lo State of AI Report 2025 identifica tre ostacoli principali che frenano questa transizione: mancanza di tempo, problemi di privacy e gap di competenze. Ecco come le organizzazioni più mature stanno affrontando queste barriere.
L’adozione dell’intelligenza artificiale nelle imprese ha ormai superato la fase dell’entusiasmo iniziale. Dopo i primi esperimenti, i progetti pilota, l’integrazione a piccoli passi, ci si sta muovendo verso un nuovo orizzonte: quello della scalabilità.
Ma è proprio a questo livello, quello in cui l’AI dovrebbe diventare parte integrante dei processi aziendali, che molte organizzazioni si fermano o rallentano. Perché portare l’intelligenza artificiale oltre i confini dell’innovazione episodica richiede molto più che un buon modello o una sperimentazione riuscita. Richiede tempo, risorse, cultura e fiducia. E soprattutto, la capacità di affrontare – e superare – un insieme complesso di ostacoli, spesso più umani che tecnologici.
È quanto emerge con chiarezza dallo State of AI Report 2025 pubblicato dal fondo di venture capital Air Street Capital, una delle analisi più lette e autorevoli sui progressi dell’intelligenza artificiale.
Il report esamina alcune dimensioni chiave dell’ecosistema AI – ricerca, industria, politica e sicurezza – e traccia le previsioni 2026 sui principali sviluppi futuri di queste tecnologie. Ma soprattutto, per la prima volta, include un survey condotto tra oltre 1200 professionisti che indaga modalità di utilizzo, vantaggi percepiti e ostacoli all’implementazione dell’AI nelle organizzazioni.
Il survey restituisce una fotografia precisa delle sfide più comuni che bloccano o rallentano l’adozione su larga scala dell’AI nei contesti organizzativi. Al centro del quadro, troviamo tre barriere principali: la carenza di tempo, le preoccupazioni legate alla privacy e alla compliance, e la mancanza di competenze specifiche all’interno dei team.
Tra le voci più ricorrenti raccolte dal report c’è una constatazione tanto semplice quanto diffusa: implementare soluzioni di intelligenza artificiale richiede tempo. Tempo per testare, adattare, integrare, documentare. Tempo per coinvolgere stakeholder, formare i team, monitorare i risultati. Tempo per costruire processi di governance che non si limitino a dare il via libera all’AI, ma ne regolino uso, limiti e responsabilità.
Eppure, il tempo – nella quotidianità operativa di molte aziende – è sempre più scarso. L’AI non arriva in un contesto neutro, ma si innesta su priorità già esistenti, flussi già saturi, agende cariche di obiettivi a breve termine. Per questo, molti progetti si arenano: non per mancanza di valore percepito, ma per mancanza di tempo per farli funzionare davvero. Ed è qui che emerge la prima vera sfida: creare uno spazio dedicato, protetto, in cui l’AI possa essere non solo pensata ma anche realizzata, senza diventare l’ennesimo punto nella lista delle cose da fare.
La seconda barriera è meno tangibile, ma altrettanto determinante: si tratta delle tensioni legate alla protezione dei dati, alla sicurezza delle informazioni, alla compliance normativa. Con l’introduzione dell’AI, molte aziende si trovano a dover affrontare un nuovo equilibrio tra il desiderio di sperimentare e l’obbligo di proteggere. Questo vale in particolare per le funzioni HR, legali, finanziarie o sanitarie, dove la sensibilità dei dati rende più difficile l’integrazione di modelli generativi.
Il report mette in evidenza un dato interessante: le aziende più avanzate nell’adozione dell’AI non sono necessariamente quelle più aggressive dal punto di vista tecnologico, ma quelle che hanno saputo costruire un framework chiaro di regole, responsabilità e controlli interni. La vera innovazione, in questo contesto, non è tanto tecnica quanto organizzativa: consiste nel rendere l’AI compatibile con i valori, i vincoli e gli standard che ogni azienda si è data. E non è un processo banale.
Infine, c’è la questione delle competenze. È un tema ormai noto, ma spesso affrontato in modo troppo semplificato. Parlare di skill shortage in ambito AI non significa solo non trovare abbastanza data scientist o prompt engineer – che, tra l’altro, dovrebbe essere una competenza sempre più trasversale a chiunque utilizzi l’AI.
Significa soprattutto che le organizzazioni faticano a costruire un linguaggio condiviso tra chi sviluppa i modelli e chi li utilizza. Che manca la capacità di tradurre un’esigenza di business in un problema algoritmico. Che i manager non sempre sanno valutare la qualità di una soluzione AI o come interpretarne gli output.
In alcuni casi le competenze sono già diffuse in azienda a livello individuale, ma mancano spazi collettivi di sperimentazione che le facciano emergere e le mettano a servizio dell’intera organizzazione. Ciò che invece avviene, ad esempio, adottando l’approccio community-driven all’adozione AI adottato dall’Independent design company logotel, che mette al centro la condivisione e lo sviluppo delle competenze attraverso comunità di pratica interne.
Il risultato di tutte queste mancanze è un doppio rischio: da una parte, il pericolo di delegare troppo all’AI senza comprenderne limiti e logiche. Dall’altra, quello di frenare l’adozione per timore di perdere il controllo. In entrambi i casi, la mancanza di competenze trasversali diventa un collo di bottiglia. E dimostra, ancora una volta, che l’AI non è una questione (solo) di tecnologia, ma di cultura organizzativa.
È importante ricordarlo: scalare l’AI non significa solo aumentare la quantità di modelli in uso, né moltiplicare le automazioni. Significa soprattutto rendere l’intelligenza artificiale parte integrante della strategia e dell’identità dell’azienda. Vuol dire passare da una logica plug and play a una logica embed and evolve, in cui ogni soluzione AI è pensata per adattarsi al contesto, evolvere con i processi, crescere con le persone.
Lo State of AI Report 2025 suggerisce che le aziende più mature in questo senso sono quelle che investono tempo nella formazione interna, che costruiscono alleanze tra IT e business, che disegnano modelli di governance distribuiti, che si danno obiettivi realistici ma ambiziosi. Non hanno meno ostacoli delle altre, ma hanno strumenti migliori per affrontarli. E soprattutto, hanno compreso che l’AI non è una scorciatoia, ma un percorso.
In definitiva, le barriere che ostacolano la scalabilità dell’AI non sono insormontabili. Ma richiedono di rivedere alcune assunzioni di base: sul tempo, sulle priorità, sulle risorse da mettere in campo. Non basta avere una strategia AI, se poi non si crea lo spazio reale – strumenti, ambienti, rituali, approcci – per realizzarla. Non serve implementare un modello all’avanguardia, se poi non si è pronti a governarne le implicazioni legali o etiche. E non ha senso aspettarsi valore, se non si investe nel costruire le competenze per riconoscerlo.
Per molte aziende, il passaggio dall’ambizione al valore reale passerà proprio da qui: dalla capacità di trasformare le barriere in leve di progettazione. Accettando che la scalabilità dell’AI è un processo lento, fatto di passaggi intermedi, di compromessi, di apprendimento continuo. E che, come tutte le trasformazioni profonde, richiede un ingrediente spesso sottovalutato nel mondo dell’innovazione: la pazienza.