Se il 95% dei progetti di Gen AI fallisce, concentriamoci su cosa funziona davvero

Uno studio svela il paradosso dell’AI aziendale: mentre i dipendenti aumentano la produttività del 40% con tool personali, le iniziative ufficiali naufragano nel 95% dei casi. I progetti efficaci puntano su persone e community, non su tecnologia.

Il 95% dei progetti aziendali di AI generativa non genera alcun ritorno sull’investimento (ROI) misurabile. È il dato principale contenuto in un report pubblicato a luglio di quest’anno e che ha “rovinato” l’estate a molti imprenditori, manager, fornitori di servizi AI e aziende specializzate in programmi di AI adoption.

C’è chi ha parlato di paradosso, chi ha profetizzato un “inverno dell’AI”, complici anche alcune dichiarazioni del Ceo di OpenAI, Sam Altman, sul rischio di fallimento per molte start-up del settore.

In realtà, però, il report The GenAI Divide: State of AI in Business 2025 realizzato dal NANDA (Networked agents and decentralized architecture), un’iniziativa del MIT Media Lab, può essere letto anche come una grande opportunità.

Focalizzandosi su quel 5% di progetti AI che stanno generando risultati, i leader aziendali possono capire quali sono gli errori da evitare, in modo da portare le loro aziende e organizzazioni sul lato giusto del Gen AI divide di cui parla lo studio.     

Non è, insomma, il momento di buttare tutto: è il momento di capire cosa distingue i progetti efficaci di AI adoption da quelli che falliscono, e per questi ultimi capire le cause che portano al fallimento. È ciò che vogliamo fare in questo articolo.  

Come è stato condotto lo studio MIT/Nanda: campione e limiti

La premessa per interpretare bene lo studio The Gen AI Divide: State of AI in Business 2025 è capire come è stato condotto e quali sono i limiti segnalati dagli stessi autori. La ricerca è stata condotta tra gennaio e giugno 2025 analizzando oltre 300 iniziative pubbliche di implementazione e adozione dell’AI. Sono state realizzate 52 interviste strutturate con rappresentanti aziendali e raccolte 153 survey con dirigenti senior in occasione di quattro importanti conferenze di settore.

Per definire di successo un progetto AI, gli autori si sono basati su un’implementazione che sia andata oltre la fase pilota, con KPI misurabili. L’impatto in termini di ROI è stato poi misurato dopo sei mesi dalla fase pilota.

Gli autori avvertono che il campione potrebbe non rappresentare pienamente tutti i segmenti aziendali o le regioni geografiche, ed è inoltre possibile un bias di selezione poiché le organizzazioni disposte a discutere le sfide di implementazione potrebbero differire sistematicamente da quelle che si sono rifiutate di partecipare.

Inoltre, le cifre relative alla riuscita implementazione di strumenti specifici per attività si basano su interviste individuali anziché su rapporti aziendali ufficiali, e le definizioni di successo variano significativamente tra le organizzazioni e i settori.

Tra gli altri limiti segnalati, è da notare che le misurazioni del ROI potrebbero essere state influenzate da miglioramenti operativi concomitanti all’implementazione dell’AI e da fattori economici esterni, e che il periodo di osservazione di sei mesi potrebbe essere insufficiente per valutare completamente il successo a lungo termine delle iniziative AI per i sistemi aziendali complessi.

I principali risultati dello studio MIT/Nanda: numeri che fanno riflettere

Fatta questa premessa metodologica, il principale risultato del report è comunque di impatto: rivela che, nonostante 30-40 miliardi di dollari di investimenti aziendali in AI generativa, solo il 5% dei progetti raggiunge la produzione con valore misurabile per il conto economico aziendale.

C’è poi un gap tra l’adozione a livello individuale di tool AI e la scalabilità di questa adozione a livello di organizzazione. Strumenti come ChatGPT e Copilot (anche detti General purpose LLM) sono infatti ampiamente diffusi: oltre l’80% delle organizzazioni coinvolte dal report li ha esplorati o testati in progetti pilota, e quasi il 40% li ha implementati in pianta stabile. Questi strumenti, tuttavia, migliorano principalmente la produttività individuale.

Al contrario, i sistemi enterprise personalizzati o venduti da fornitori specializzati, che dovrebbero migliorare le performance a livello di organizzazione, hanno tassi di conversione bassissimi. Il 60% delle organizzazioni ha valutato questi strumenti, ma solo il 20% ha raggiunto la fase pilota e appena il 5% ha raggiunto la fase di produzione. I limiti di questi sistemi risiedono in flussi di lavoro fragili, mancanza di apprendimento contestuale e disallineamento con le operazioni quotidiane.

Perché i progetti di Gen AI falliscono

Gli autori dello studio hanno identificato quattro pattern che portano al Gen AI divide. Vediamoli di seguito.

Disruption limitata: solo 2 dei 9 settori principali monitorati (Media e Tech) mostrano cambiamenti strutturali significativi. In altri campi, come l’energia, i servizi finanziari, il settore customer e retail, gli impatti dell’AI sono ancora limitati.

Paradosso aziendale: le grandi aziende guidano a livello di volume di progetti pilota, ma sono in ritardo nella scalabilità.

Bias negli investimenti: nella maggior parte delle aziende e organizzazioni i progetti di implementazione dell’AI si concentrano in funzioni aziendali visibili e di prima linea (come vendite e marketing, dove le iniziative AI sono più facili da immaginare e misurare), e trascurano le funzioni dove i risparmi sono più elevati, come il back office.

Vantaggio dell’implementazione: i progetti sviluppati internamente (build) hanno solo il 33% di probabilità di successo, contro il 67% delle partnership esterne (buy). Non è questione di competenza, ma di esperienza applicata. Come spiega un articolo di Forbes che si concentra sulle cause del fallimento della maggior parte delle iniziative di AI adoption, “i team interni conoscono profondamente il business. Ma raramente hanno la conoscenza applicata che deriva dall’eseguire dozzine di implementazioni”.

Ma l’ostacolo principale alla scalabilità dei sistemi AI in azienda è quello che gli autori dello studio hanno definito il learning gap. La maggior parte dei sistemi Gen AI non ha memoria: non apprende dal feedback, non si adatta al contesto e non migliora nel tempo. Le organizzazioni che restano impantanate sul lato sbagliato del Gen AI divide continuano a investire in strumenti statici che non possono adattarsi ai loro flussi di lavoro.

La shadow AI economy: quando la produttività individuale non diventa valore aziendale

Uno dei fenomeni più sorprendenti emersi dallo studio MIT è la shadow AI economy (qui un articolo per approfondire). Sempre più persone utilizzano sul lavoro tool di Gen AI vietati o non autorizzati dalle proprie organizzazioni.

Le dimensioni del fenomeno si apprezzano da un dato: mentre il 90% dei dipendenti utilizza regolarmente strumenti AI personali come ChatGPT per lavoro, solo il 40% delle aziende ha acquistato licenze ufficiali.

C’è quindi un divario importante tra l’utilizzo a livello individuale dei tool di AI e quello a livello di aziende e organizzazioni, con un paradosso evidente: mentre i singoli aumentano la propria produttività del 40-70% su task specifici, questo guadagno raramente si traduce in vantaggi misurabili per l’organizzazione e, anzi, può costituire un rischio. Perché? I motivi sono molteplici:

  • frammentazione degli sforzi: ogni dipendente ottimizza il proprio lavoro in modo isolato, senza coordinamento;
  • mancanza di standardizzazione: le best practice restano confinate al singolo, non diventano patrimonio aziendale;
  • rischi di compliance e sicurezza: dati aziendali finiscono su piattaforme non controllate;
  • perdita di memoria organizzativa: le conoscenze generate non vengono catturate nei sistemi aziendali.

La shadow AI economy dimostra che i dipendenti sanno cosa serve: tool flessibili, immediati, che apprendono. Ma dimostra anche che senza un approccio strutturato, i benefici individuali evaporano prima di cristallizzarsi in valore aziendale.

Il bicchiere mezzo pieno: cosa fa funzionare i progetti di Gen AI

Come abbiamo scritto in apertura, la vera ricchezza del report MIT/Nanda è che contiene anche le “ricette” che fanno funzionare quei pochi (al momento) progetti di AI adoption e implementation. Vediamone allora alcune.

Sistemi che apprendono e mantengono memoria e contesto

Il 66% dei dirigenti interpellati dallo studio richiede esplicitamente sistemi che apprendono dal feedback degli utenti. Non basta un’AI che risponde: serve un’AI che ricorda, mantiene il contesto, si adatta e migliora.

Già adesso alcuni tool AI consumer stanno implementando funzionalità che consentono di ricordare chat e contesti (tra gli altri ChatGPT e Claude).

Ma sono le future evoluzioni, e in particolare il cosiddetto web agentico, che potrebbero fornire una risposta veramente efficace a questo problema. Il web agentico è lo step successivo rispetto allo sviluppo di AI agent individuali, un ecosistema in cui i sistemi autonomi possono scoprire, negoziare e coordinarsi attraverso l’intera infrastruttura internet, cambiando fondamentalmente il modo in cui operano i processi aziendali.

Nel web agentico, spiega il report, “i sistemi scopriranno autonomamente fornitori ottimali e valuteranno soluzioni senza ricerca umana, stabiliranno integrazioni API dinamiche in tempo reale senza connettori pre-costruiti, eseguiranno transazioni trustless attraverso smart contract abilitati dalla blockchain, e svilupperanno flussi di lavoro emergenti che si auto-ottimizzano attraverso piattaforme multiple e confini organizzativi”.

Uno scenario ottimista, anche se c’è da fare una precisazione: Nanda è infatti parte in causa nello sviluppo del web agentico, e potrebbe dunque avere conflitti di interessi nell’ipotizzare queste evoluzioni future.

Partnership strategiche vs. sviluppo interno

Le organizzazioni che ottengono risultati efficaci preferiscono puntare su partnership esterne piuttosto che sviluppare internamente sistemi AI. Non per pigrizia, ma per pragmatismo: le partnership esterne portano esperienza di implementazione, conoscenza cross-industry e capacità di navigare le sfide culturali che inevitabilmente emergono.

Personalizzazione profonda dei workflow

I progetti efficaci non implementano soluzioni generiche. Partono da workflow specifici, spesso periferici ma critici, e si integrano profondamente nei processi esistenti. Come nota il report del MIT, gli strumenti con configurazione agile e un rapido time-to-value superano le pesanti implementazioni aziendali.

Approccio bottom-up con accountability centrale

Le implementazioni efficaci nascono dai “prosumer”, cioè dipendenti che già usano AI personalmente e comprendono intuitivamente capacità e limiti. Le organizzazioni che ottengono risultati concreti “decentralizzano l’autorità ma mantengono la responsabilità”, lasciando che manager di linea e team guidino l’adozione.

Un meccanismo “dal basso”, simile a quello che avviene nelle community di adozione sviluppate dalla Independent design company logotel. Si tratta di ambienti che favoriscono la sperimentazione collettiva e permettono alle idee di valore di emergere e dare vita a sviluppi anche in chiave agentica.

I risultati parlano chiaro: nel case study Dojo, un progetto di AI adoption realizzato per Italgas, il 77% della popolazione aziendale coinvolta ha adottato attivamente i nuovi strumenti, generando un circolo virtuoso di engagement e innovazione. È anche sulla base della propria esperienza che logotel è convinta che l’adoption che funziona è collaborativa, organica all’organizzazione e genera utilità ogni giorno: sono gli ingredienti dell’approccio all’AI adoption community-driven che contraddistingue la design company.

Focus sui risultati di business, non sui benchmark tecnici

Chi ottiene risultati efficaci valuta l’intelligenza artificiale in base a risultati aziendali concreti e misurabili:

  • riduzione dei costi di outsourcing (servizi esterni come call center o elaborazione documenti);
  • velocità nel qualificare potenziali clienti: miglioramento nel tempo necessario per identificare e valutare nuove opportunità di vendita;
  • riduzione delle spese per agenzie esterne: taglio sui costi per consulenti, agenzie creative o di contenuti.

I manager delle aziende che hanno implementato con successo l’AI non si lasciano impressionare da dimostrazioni spettacolari ma vuote. Cercano invece prove concrete di come l’AI possa migliorare i risultati economici della loro azienda.

Valorizzare la shadow AI economy

Le organizzazioni lungimiranti stanno iniziando a imparare quali strumenti personali generano valore prima di sviluppare alternative aziendali. Invece di combattere lo shadow AI, lo studiano per capire:

  • quali task vengono davvero ottimizzati con l’AI;
  • quali workflow necessitano di supporto AI;
  • come trasformare le pratiche individuali in processi aziendali;
  • come catturare e diffondere le best practice emergenti.

Per compiti complessi l’umano supera l’AI

Uno degli ultimi insight del report che ci sembra interessante riportare riguarda infine la centralità dell’elemento umano.

È un tema di fiducia, che riguarda anche la già citata scarsa “memoria” di molti tool AI. Alle persone che hanno partecipato allo studio MIT/Nanda è infatti stato chiesto, tra le varie domande, se affiderebbero un progetto semplice e un progetto complesso a colleghi umani o all’intelligenza artificiale generativa.

La gerarchia delle preferenze è chiara: per compiti rapidi (e-mail, riepiloghi, analisi di base), l’AI viene preferita nel 70% dei casi. Ma quando si tratta di problemi complessi o a lungo termine, gli umani dominano con margini di 9 a 1.

La linea di demarcazione non è l’intelligenza, è la memoria, l’adattabilità e la capacità di apprendimento, le caratteristiche esatte che separano i due lati del divario Gen AI.

In conclusione: è tempo di cambiare approccio

Il messaggio del report MIT è inequivocabile: il 95% dei progetti AI fallisce non per limiti tecnologici, ma per approcci sbagliati. Per i leader aziendali che vogliono posizionarsi nel 5% vincente, ecco le azioni concrete da intraprendere.

Partite dalle persone, non dalla tecnologia. Identificate i “prosumer” già attivi nella vostra organizzazione – quei dipendenti che usano ChatGPT o altri tool AI quotidianamente. Sono loro i vostri migliori alleati per capire cosa funziona davvero.

Create community di sperimentazione. L’AI che genera valore nasce dal basso, non dall’alto. Costruite spazi sicuri dove i team possano testare, fallire e condividere apprendimenti. Con un approccio community-driven, come quello sperimentato con successo nel progetto Dojo di logotel per Italgas, l’innovazione diventa sistemica.

Misurate ciò che conta. Abbandonate le metriche di vanità. Il vero ROI si misura in riduzione dei costi di outsourcing, velocità di processo, qualità del servizio al cliente. Se non potete collegare l’AI a un miglioramento concreto del conto economico, state sbagliando qualcosa.

Scegliete partner, non fornitori. Le implementazioni di successo nascono da partnership strategiche più che da sviluppi interni isolati. Cercate partner che comprendano i vostri processi e possano personalizzare soluzioni che apprendono e si evolvono.

Agite ora, ma con metodo. Il report MIT/Nanda afferma che la “finestra” per posizionarsi nel lato giusto del Gen AI divide si sta chiudendo. Le aziende che stanno già investendo in sistemi AI che apprendono dai dati e dai feedback stanno creando vantaggi competitivi difficili da colmare.

Il 5% di progetti AI di successo non è un’élite irraggiungibile: è un gruppo di organizzazioni che ha capito una verità semplice. L’AI generativa non è una bacchetta magica tecnologica, ma uno strumento che amplifica la capacità umana di creare valore.

La domanda non è se implementare l’AI, ma come farlo in modo che generi risultati misurabili. E la risposta, come dimostra anche il report, sta nel mettere le persone e le community al centro del processo di trasformazione.