Solo il 13% delle aziende è pronta per l’AI: il Cisco AI Readiness Index 2025 spiega come colmare il gap tra ambizione e capacità

Un report globale di Cisco evidenzia che tutte le aziende investono in AI, ma solo il 13% è pronto a estrarne valore. Infrastrutture, governance e cultura aziendale sono i maggiori ostacoli da superare.

Negli ultimi tre anni l’intelligenza artificiale è diventata la parola chiave di ogni strategia aziendale.

Ogni settore – dal manifatturiero ai servizi, dal retail alla finanza – ha investito tempo, risorse e attenzione per capire come sfruttare il potenziale dell’AI. Eppure, per molte organizzazioni, il valore promesso non si è ancora materializzato.

Lo conferma il nuovo Cisco AI Readiness Index 2025, una delle analisi più complete sul livello di preparazione e maturità delle aziende nell’adozione dell’intelligenza artificiale a livello globale. Lo studio ha coinvolto oltre 8.000 senior business leader responsabili dell’integrazione e deployment dell’AI in organizzazioni con più di 500 dipendenti, distribuite in 30 mercati tra Asia-Pacifico, Nord America, America Latina, Europa, Medio Oriente e Africa.

Il dato più eloquente è semplice quanto spiazzante: solo il 13% delle aziende nel mondo è davvero pronta a trarre valore dall’AI. Tutte le altre, pur avendo iniziato a sperimentare, restano intrappolate tra l’entusiasmo e la complessità.

Dal dire al fare: il gap tra ambizione e realtà

Quasi tutte le imprese oggi dichiarano di voler investire in AI. Ma poche sanno davvero cosa serve per farla funzionare. Molte iniziative partono con grandi ambizioni – migliorare l’efficienza, potenziare la customer experience, rendere i processi decisionali più rapidi – ma finiscono in una spirale di sperimentazioni scollegate, proof of concept mai scalati, e risultati difficili da misurare.

Cisco definisce questa distanza come valley of ambition: una zona grigia tra il desiderio di innovare e la capacità effettiva di farlo. Un divario che nasce da un mix di fattori: infrastrutture non pronte, governance assente, dati frammentati, e – forse il più grande ostacolo – una cultura aziendale che non ha ancora interiorizzato la logica dell’intelligenza artificiale.

I numeri parlano chiaro: solo il 32% delle aziende ha un processo strutturato per misurare l’impatto delle proprie iniziative AI, e appena il 34% si sente davvero fiduciosa nel trasformare i casi d’uso in ricavi concreti. Senza metriche chiare e percorsi di monetizzazione definiti, il valore rimane sulla carta.

Eppure, la pressione per dimostrare risultati tangibili è in crescita. Otto aziende su dieci dichiarano che l’urgenza di dimostrare un ROI (Return on investement) concreto è aumentata drasticamente negli ultimi sei mesi, spinta da CEO, CFO e dalla crescente competizione.

In altre parole, non è l’AI a mancare. È il contesto in cui dovrebbe funzionare.

L’AI infrastructure debt: il debito invisibile che frena le imprese

Uno dei concetti più interessanti emersi dal report è quello di AI infrastructure debt: una sorta di “debito tecnico” accumulato negli anni da sistemi IT rigidi, database isolati e architetture obsolete. Ogni volta che un’azienda integra un nuovo strumento senza un piano coerente, aggiunge un piccolo frammento a questo debito.

Finché, un giorno, quel debito diventa insostenibile.

Le applicazioni non comunicano, i dati non fluiscono, i team lavorano su silos separati. E quando arriva l’AI – una tecnologia che vive di connessioni, velocità e interoperabilità – l’intera macchina si inceppa.

Il risultato è che molte organizzazioni vogliono correre, ma hanno il motore ancora fermo alla fase pre-digitale.

Per colmare questo divario serve una strategia chiara di modernizzazione: infrastrutture flessibili, dati accessibili e governance trasparente. Solo così l’AI può diventare un fattore di valore reale e non un esperimento isolato.

I pacesetters: chi riesce davvero a trasformare l’AI in valore

Il report di Cisco identifica una categoria precisa di aziende che ce l’ha fatta: i pacesetters, circa il 13% del campione. Sono realtà che non solo hanno investito nell’AI, ma l’hanno resa parte integrante del proprio modello operativo.

Cosa le distingue dalle altre?

Prima di tutto, una visione chiara: l’AI non è vista come un progetto IT, ma come un driver strategico.

I team lavorano insieme – data scientist, manager, HR, marketing – per tradurre gli use case in risultati di business misurabili. Ogni iniziativa parte da un obiettivo concreto: ridurre i tempi di risposta al cliente, aumentare la produttività, ottimizzare la supply chain.

I pacesetters hanno quattro volte più probabilità di portare i progetti in produzione e tre volte più capacità di misurarne l’impatto. Non corrono più velocemente: corrono nella direzione giusta.

Ma forse il dato più eloquente riguarda le aspettative finanziarie: mentre il 30% delle aziende globali prevede un ritorno sull’investimento tra il 50% e il 100% entro un anno, tra i pacesetters questa percentuale sale al 48%. Non è ottimismo cieco: è la conseguenza diretta di una readiness strutturata.

E i risultati stanno già arrivando. Circa due terzi delle aziende che hanno implementato l’AI dichiarano che ha soddisfatto o superato le aspettative in termini di profittabilità, crescita dei ricavi e lancio di nuovi prodotti. Tra i pacesetters, queste percentuali superano stabilmente il 90%.

L’AI agentica e la nuova complessità del lavoro

Un altro elemento fotografato dal report è l’esplosione dell’AI agentica, quella che non si limita a generare contenuti o risposte, ma agisce in autonomia.

Secondo Cisco, l’83% delle aziende intende adottare agenti AI entro i prossimi 24 mesi, ma solo un terzo ritiene di avere le infrastrutture pronte per sostenerli.

È un dato cruciale, perché mostra quanto il ritmo dell’innovazione superi la capacità di assorbimento organizzativa. Gli agenti AI, infatti, non sono semplici strumenti: sono sistemi che prendono decisioni, gestiscono processi e interagiscono con altre macchine.

In pratica, diventano nuovi attori all’interno del lavoro, con cui le persone devono imparare a collaborare, coordinarsi, fidarsi.

Questo passaggio apre interrogativi profondi: come si governa un agente autonomo?

Chi risponde delle sue azioni? E soprattutto, come si prepara una cultura aziendale a lavorare con colleghi digitali che operano a una velocità “superumana”?

Il punto, ancora una volta, è che la tecnologia corre più veloce della cultura.

E mentre l’AI evolve in direzione sempre più agentica, la leadership aziendale è chiamata a evolvere con essa: verso un management capace di bilanciare delega, supervisione e fiducia algoritmica.

Un tema su cui Cisco stessa è in prima linea, come dimostra tra le varie iniziative Leading with AI, un programma realizzato in collaborazione con l’Independent design company logotel che mira ​ad aumentare l’uso quotidiano dell’IA nelle attività lavorative dei manager. ​

Perché, come ha affermato il VP, 3P Chief Innovation & Technology Officer di Cisco, Gianpaolo Barozzi, a margine di un evento organizzato da logotel,  “la  capacità da parte di leader e manager di gestire i loro team, guidare le persone e usare l’AI a proprio vantaggio per essere migliori manager e leader, e la loro capacità di integrare l’AI nei propri team, determinerà il successo o meno di come l’intelligenza artificiale cambierà il lavoro”.

Un messaggio che risuona perfettamente con quanto emerge dal Cisco AI Readiness Index: non basta adottare la tecnologia, serve ripensare la leadership stessa.

Il nodo della sicurezza: l’anello debole della catena

Se l’AI agentica promette autonomia e velocità, porta con sé anche nuovi rischi. Solo il 31% delle organizzazioni si sente completamente attrezzato per controllare e proteggere sistemi di AI che prendono decisioni in autonomia. Meno della metà dichiara di avere piena capacità di proteggere i dati sensibili o prevenire accessi non autorizzati.

È un paradosso pericoloso: mentre l’83% delle aziende pianifica di implementare agenti AI nei prossimi 24 mesi, le fondamenta di sicurezza restano fragili. La sicurezza non può essere un ripensamento: deve essere embedded fin dall’inizio, altrimenti ogni nuovo deployment aggiunge rischio invece che valore.

Il report evidenzia che la sicurezza compare sia tra le priorità principali sia tra i blocchi più critici – un segnale chiaro che i leader riconoscono l’importanza del tema, ma faticano ancora a tradurla in capacità operative concrete.

La readiness come fattore competitivo

C’è un messaggio chiave nel report di Cisco: il valore segue la preparazione (“Value follows readiness”). In altre parole, non basta adottare l’AI: bisogna essere pronti a gestirla, integrarla e misurarla.

Le aziende più “AI ready” non sono necessariamente le più grandi o le più tecnologiche. Sono quelle che hanno saputo allineare strategia, cultura e infrastruttura.

Hanno un piano di governance chiaro, ruoli definiti, processi di controllo continui. Investono nella formazione delle persone, nella qualità dei dati, nella sicurezza dei sistemi. E, soprattutto, hanno una mentalità orientata all’apprendimento continuo: ogni progetto è un ciclo di sperimentazione, misurazione e miglioramento.

Eppure, c’è un elemento spesso trascurato: solo una azienda su tre ha un piano formale di change management per accompagnare i dipendenti nell’adozione dell’AI. È un dato sorprendente, considerando che l’81% delle organizzazioni ha già identificato un owner chiaro per l’AI all’interno del business.

Questo disallineamento – struttura senza cultura, strategia senza accompagnamento – rischia di vanificare anche gli investimenti meglio pianificati. Le persone non oppongono resistenza alla tecnologia: oppongono resistenza al cambiamento non gestito.

La readiness, in questo senso, non è un punto di arrivo ma un approccio: un modo di gestire il cambiamento in modo sistematico e intenzionale.

Le aspettative delle aziende

Una buona notizia che emerge dal report è che le aspettative delle aziende non sono proiettate in un futuro lontano. Più della metà delle aziende (53%) si aspetta che l’AI generi crescita dei ricavi entro i prossimi 12 mesi, attraverso nuove funzionalità di prodotto, upselling o ingresso in nuovi mercati.

La riduzione dei costi (saving) invece, viene vista come un obiettivo più a lungo termine: solo il 37% la considera una priorità immediata, mentre il 51% punta a ottenere efficienza operativa entro 2-3 anni.

Ma c’è un obiettivo che attraversa tutte le timeline: l’86% delle organizzazioni si aspetta che l’AI produca miglioramenti significativi di produttività per i dipendenti entro tre anni.

In altre parole, l’AI non è vista come una scommessa sul lungo termine. È una leva che deve iniziare a produrre valore – misurabile e tangibile – nell’arco di mesi, non di anni.

Dalla promessa alla pratica: costruire una cultura del valore

La sfida più grande, forse, è culturale. Per anni abbiamo parlato di AI come di un orizzonte tecnologico: qualcosa che avrebbe rivoluzionato il modo di lavorare, di decidere, di creare valore. Oggi, quella rivoluzione è iniziata, ma non nel modo lineare che molti si aspettavano.

L’AI non sostituirà le persone: le costringerà a crescere. A capire cosa significa delegare, come interpretare i risultati generati da un sistema, come prendere decisioni che tengano conto di logiche diverse da quelle umane.

Le aziende che sapranno affrontare questa trasformazione non saranno solo più efficienti, ma più intelligenti. Perché la vera intelligenza non è quella della macchina, ma quella dell’organizzazione che sa usarla bene.

Il Cisco AI Readiness Index 2025 ci consegna una fotografia chiara: la maggior parte delle aziende è ancora in una fase definita di ambizione. Ma la buona notizia è che il percorso verso il valore è tracciato.

Servono visione, una governance robusta, dati affidabili e una cultura pronta a imparare. Serve, in altre parole, trattare l’AI non come un’iniziativa straordinaria, ma come una capacità ordinaria – qualcosa che vive dentro i processi, nelle decisioni quotidiane, nelle relazioni tra persone e sistemi.

Le aziende che lo capiranno per prime costruiranno il vantaggio più difficile da imitare: non l’AI più potente, ma l’organizzazione più pronta a trarne valore.