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Il cimitero delle comunità

Le comunità trasformative sono sistemi viventi: possono prosperare, ma anche spegnersi. Ci sono elementi che, se non vengono gestiti, intossicano la vita di una comunità e ne neutralizzano il potenziale.

Come tutti i sistemi viventi, le comunità trasformative possono essere straordinariamente resistenti e sopravvivere a cambiamenti di vasta portata. Ma – proprio per la loro natura vitale – diventano fragili e possono spegnersi quando mancano impegno, cura e attenzione. Spesso, infatti, si tende a confondere gli strumenti utili a nutrire le comunità con il senso per cui esistono. E quindi si incappa in un approccio meccanicistico, che punta alla realizzazione delle piattaforme migliori, degli eventi più prestigiosi, dei meccanismi di engagement più all’avanguardia, dimenticando il progetto coesivo che aggrega le persone nelle comunità. E quindi – confondendo i mezzi con il fine – a volte si realizzano luccicanti scatole vuote.

Comunità che hanno smarrito la propria funzione: il caso di Chandigarh

Nella storia non mancano gli esempi di luoghi e piattaforme ideali, nati con le migliori intenzioni ma che – senza un approccio People & Community centred – hanno perso per strada la propria funzione. Uno dei casi più celebri riguarda la città indiana di Chandigarh, nata negli anni Cinquanta come utopia modernista di Le Corbusier, dove tutto era al posto giusto, per essere esteticamente e razionalmente appagante. Poi, con il tempo, la razionalità voluta dall’architetto svizzero è stata invasa dalla vita brulicante tipica delle città indiane, che non segue affatto i canoni occidentali. E quindi i palazzi, i monumenti e le strade di Chandigarh oggi continuano a esistere, ma non seguono più le intenzioni progettuali iniziali.

SecondLife e i social di Google: comunità digitali fallite

Saltando più avanti nel tempo e spostandoci nel mondo digitale, uno dei casi più famosi di comunità fallita è la piattaforma SecondLife che – al suo massimo splendore – era ricchissima di interazioni tra persone connesse in tutto il mondo. Ma, spinta dal desiderio di incorporare nel virtuale più funzioni possibile della vita reale, ha iniziato a complicarsi a tal punto da far decadere la semplice voglia di condividere, creando infinite barriere che ne hanno diluito il senso originario.

O, ancora, un ultimo esempio riguarda i molteplici tentativi falliti di Google di realizzare il proprio social network, prima con Buzz, poi con Orkut e con Wave e infine con Plus. Piattaforme molto più avanzate e fluide del- la concorrenza, ma sviluppate senza pensare a uno spirito aggregativo. Al contrario di Facebook, nato come “macchina del desiderio” – come l’ha definita l’antropologo René Girard – per supportare la condivisione della vita universitaria, per poi evolversi e dare spazio a miriadi di micro-comunità, raggiungendo così il suo apice, alla fine degli anni Dieci, per poi iniziare ad affievolirsi. Il motivo? Perché il “patto di fiducia” tra persone e proprietari della piattaforma si è incrinato, come racconta un articolo apparso su The Verge: “Social media is doomed to die”.

I 6 elementi che intossicano la vita di una comunità

E allora proviamo a individuare sei elementi che, se non gestiti, intossicano la vita di una comunità e ne neutralizzano il potenziale.

Manca un centro di gravità

Oggi le persone sono sovra-stimolate e rimbalzano da un ambiente fisico-digitale all’altro, in un flusso infinito di opzioni. E quando nasce un disaccordo o un problema – come in tutte le relazioni che non funzionano – sono tentate di abbandonare la comunità, per cercare soluzioni più semplici E senza fiducia e un motivo profondo per rimanere, ogni forma di partecipazione si spegnerà gradualmente.

Ci sono solo conversazioni e nessuna utilità

La possibilità di esprimersi e vedere accolte le proprie idee e opinioni è un catalizzatore potente per le comunità. Ma senza un’organizzazione, una pianificazione e una condivisione di risorse, tutto rimane E, in assenza di utilità, gli scambi tenderanno a diradarsi.

Le funzionalità prevalgono sui percorsi relazionali

Anche quando le comunità aiutano a risolvere problemi, non devono mai limitarsi a ottimizzare i risultati. Perché la comunicazione diretta tra persone crea strade più rapide e apre a nuove modalità per affrontare una sfida. E quindi, senza elementi relazionali, la comunità alimenterà solo rapporti utilitaristici, che ne mineranno le possibilità di adattamento future.

Troppa attenzione su temi specifici e poca ispirazione

Le comunità offrono possibilità per confrontarsi su temi che interessano i partecipanti (dalle idee su come migliorare le performance lavorative, fino a progetti per vivere al meglio il proprio quartiere). Ma, se non accolgono nuovi punti di vista, i temi focali non verranno nutriti con nuove prospettive. E si esauriranno.

Le ricompense per i partecipanti attivi prevalgono sulle regole di ingaggio dei nuovi membri

Lavorare su forme di celebrazione e gratificazione per le persone attive è un elemento importante, ma le comunità si alimentano anche con nuovi ingressi, che contribuiscono a estendere la scala della comunità. E, se ci si dimentica come rinnovare le forme di accoglienza, si smetterà di accogliere nuovi bisogni. Così, di colpo, la comunità perderà lo sguardo verso il futuro.

La parola “comunità” è così vaga da non aggregare significati

Una comunità che funziona non è per tutti, deve avere un perimetro. È un requisito essenziale per innescare conversazioni e condivisioni rilevanti. Sono queste ultime che contribuiscono a definire le molteplici forme che una comunità può assumere.

Articolo a cura di Vincenzo Scagliarini, Senior Strategist Logotel