13 minuti

Una comunità? Quando è trasformativa crea impatto e genera benessere. Punto.

Riconoscersi insieme su qualcosa di significativo, consistente, cioè essere comunità, fa sentire bene ed è vitale per imprese e organizzazioni. Ma solo se le comunità sono trasformative possono creare impatto e generare benessere.

Alzi la mano chi oggi potrebbe sostenere in pubblico di non credere al potere e all’efficacia delle organizzazioni quando queste sono animate da legami, dinamiche e collaborazioni realmente comunitarie… E ancora, alzino la mano quanti non sono stati chiamati a sviluppare idee, progetti, proposte, azioni, scenari capaci di dialogare e impattare non solo su singole esperienze per persone, colleghi, clienti o cittadini, ma su comunità di persone.

Le domande a questo punto vengono da sé: siamo realmente consapevoli e convinti dell’approccio People & Community based? Siamo, cioè, realmente sinceri quando diciamo che una comunità di persone può, in quanto tale, realmente contribuire o “dare un boost” alla selezione dei fini e alle decisioni che contano? O – ma è la stessa domanda – quanto di quello che progettiamo per le comunità ha realmente impatto? Adesso vogliamo mettere a tema proprio questo oggetto misterioso: la comunità. E aprirci al confronto con voci ed esperienze diverse.

Il tema delle comunità interne o esterne alle organizzazioni è complesso

Siamo perfettamente consapevoli che l’intento contiene una buona dose di ‘egoismo’, di quello sano, si intende… È da decenni che Logotel attorno alle comunità sviluppa idee, azioni, esperienze. Successi ed errori. Ora abbiamo bisogno di capirne di più. Innanzitutto per noi, ma siamo convinti che il bisogno sia diffuso. Perché diffusissima è – lo vediamo – l’esigenza di fissare qualche paletto sull’argomento. Da una parte vediamo con chiarezza quanto il tema delle comunità interne o esterne alle organizzazioni si stia mostrando in tutta la sua complessità. Ormai le comunità presentano varietà capaci di eccedere tutte le polarità usuali (digitale/analogico, fisiche/ virtuali…), di animarsi attorno a legami anche non strutturali. E questa varietà si sta spingendo fino a quella frontiera che apre sul terreno, ancora tutto da capire, delle comunità di comunità. Parliamo di resilienza e persino di sopravvivenza per le organizzazioni, in non poche circostanze. E forse questo c’entra qualcosa con il bisogno di una identificazione positiva e costruttiva delle persone. Appunto, organizzazioni non solo Community based ma People & Community based.

Partiamo da loro, da “noi”

Vi invito a iniziare da loro, dalle persone che una comunità, una community, la vivono, la frequentano, vi contribuiscono e la usano per fare cose che altrimenti non riuscirebbero a fare, da chi sceglie di investire tempo ed energie perché ne riconosce una reale utilità, da chi la sostiene condividendo informazioni, contenuti pratiche ed emozioni, da chi l’attiva e la supporta (e la difende) tutti i giorni per innescare e far accadere azioni nel quotidiano. Abbiamo delle testimonianze di chi usa una business community da oltre 22 anni per lavorare tutti i giorni imparando e facendo, di chi è entrato da poco nel mondo del lavoro in un’organizzazione e grazie a una community di pratica non si sente solo e sta imparando un nuovo mestiere con l’AI, grazie anche al contributo continuo di colleghi, di chi – anche se lontano – si sente parte di un team solidale e trova risposte per fare meglio il suo lavoro con una community di interesse, di cittadini, persone e organizzazioni diverse che usano una community di community per fare una rete di imprese. Perché lo fanno? Perché per essere abbiamo bisogno dell’altro, ricerchiamo utilità nello scambio, abbiamo bisogno di esprimerci in un contesto sicuro, abbiamo bisogno di sapere che il “mio” contributo ha un valore, di sapere che se imparo qualcosa oggi mi servirà in futuro. Questo ci muove e ci fa partecipare in una community dove l’interesse è collettivo. Questo ci motiva e contribuisce a farci sentire bene.

Essere comunità fa sentire bene ed è vitale per imprese e organizzazioni

Sempre più persone cercano non solo un luogo di lavoro/uno stipendio secondo le attese, ma un posto coerente con le proprie convinzioni e gli indirizzi di vita personale e un luogo attraente, stimolante dal punto di vista dei rapporti umani. Ecco perché il riconoscersi insieme su qualcosa di significativo, consistente, cioè essere comunità, fa sentire bene ed è vitale per imprese e organizzazioni. Si parla tanto di community, eppure ce ne sono i cimiteri pieni, tante vivono solo per il “tempo dello spettacolo”. Non sono quelle di cui vi vogliamo parlare noi. Non ci interessano interventi di make-up! Qui vogliamo confrontarci sulle comunità trasformative: sistemi viventi che evolvono e si modificano nel tempo in contesti ibridi, per generare impatti positivi.

Le comunità trasformative fanno fare qualcosa alle persone, come vi scrivevo prima, che altrimenti non sarebbero state in grado di fare da sole. Nutrono percorsi che fanno evolvere i comportamenti delle persone. Sono reti del “dare e del ricevere” che generano motivazioni relazionali per un’azione sociale, per uno scopo.

Comunità che non possono essere create in vitro, né sono del tutto spontanee. Devono essere progettate a partire dai bisogni emergenti di persone, organizzazioni, territori ed ecosistemi. No, non parliamo di chat e di ambienti di sola conversazione, o solo di comunità territoriali… Certo, ci sono anche questi aspetti, ma ci interessa affrontare un ingrediente che accelera il metabolismo di realtà sempre più reticolari, distribuite, multidimensionali come sono quelle di ecosistemi di persone, di organizzazioni, di una rete di vendita, di imprese, di enti o di associazioni; di realtà multinazionali o di reti no profit. Realtà che hanno tutte una cosa in comune: persone che devono trovare un senso al perché vivere, stare, collaborare e agire insieme per fare meglio. Sistemi che devono funzionare nel tempo e generare reale valore.

Le organizzazioni devono nutrire legami comunitari. O spariranno

Ho parlato di “noi”, sì questa volta metto in primo piano il desiderio di Logotel come Independent Design Company di voler condividere quello che abbiamo imparato e stiamo imparando in oltre 30 anni di sperimentazione e messa in pratica, con oltre 40 casi che nascono nel Mediterraneo e attraversano oltre 100 Paesi e altrettante culture e sono tuttora “live”. Da questo punto di vista giova ricordare che Logotel è una comunità in primis e anima, attraverso il proprio business, comunità. Qualche mese fa Logotel aveva deciso di dedicare Weconomy alle UFO, cioè alle Unidentified Future Organizations. Già nel contesto di quelle analisi, discussioni, testimonianze emergeva la tendenza a considerare la comunità come un ingrediente se non essenziale e vitale, quantomeno necessario delle organizzazioni del futuro. Qualsiasi forma esse avranno. O l’organizzazione nutrirà al suo interno legami comunitari o non sarà. Allo stesso tempo è sempre più chiaro quanto soggetti comunitari siano prepotentemente entrati a far parte degli stabili interlocutori di riferimento delle attività di strutturazione interna delle organizzazioni, quanto del loro business. Adesso vogliamo concentrarci sulle comunità.

Perché dovrebbe interessarci?

Ci interessa davvero? Con tutti i problemi e le priorità che abbiamo in agenda, perché “mi” dovrebbe interessare? Le nuove e future forme di organizzazioni e delle imprese assomiglieranno sempre di più a reti fluide di persone, saranno più simili alle community attuali, che alle organizzazioni per come le conosciamo. Ci sarà sempre meno un “dentro e fuori”, ma sempre di più confini fluidi tra clienti e colleghi, cittadini, volontari, partner, fornitori. Facciamoci un’altra domanda: oggi quanto costa l’organizzazione che abbiamo? E se a quel costo aggiungiamo quello del continuo e sempre più alto turnover di persone? Quello di ricerca e ingaggio dei giovani che trovano repellente entrare in molte organizzazioni e brand attuali? Il costo di formazione per aggiornare skill e re-skill? Quello per riuscire a far lavorare insieme persone di aziende diverse in nuove filiere di “produzione del valore”? Senza quell’ecosistema di persone solidali, coese e motivate, il mio esistere come azienda o rete di imprese non c’è. Potrei continuare, il costo è alto. Se tutto questo lo appoggiamo su un tappeto di trasformazioni blue & green, politiche, economiche, sociali e generazionali che dobbiamo gestire e mettere a terra, il costo aumenta. Qualsiasi impatto lo otteniamo se lo facciamo con loro, attraverso di loro, attraverso le persone. Le trasformazioni non sono fuori, devono nascere dentro le organizzazioni, negli ecosistemi di persone. Solo così scaleremo impatti rilevanti.

Abbiamo bisogno di adottare una visione davvero diversa

Abbiamo parlato di materia dinamica fatta di relazioni, di scambi. Le comunità non sono semplicemente composte di unità discrete messe in rete, ma di elementi dinamici e porosi. Le comunità trasformative sono sistemi viventi. Che hanno bisogno delle condizioni giuste per crescere e prosperare. Non sono astratte, ma sono sempre situate: in luoghi fisici e digitali, ambienti e territori.

Una visione completamente diversa richiede di sviluppare una doppia prospettiva contemporanea della persona, ma anche della comunità come soggetto: People & community centred. In ogni stato e momento, quale impatto vogliamo creare per la persona? E per la community? La doppia prospettiva genera motivazioni relazionali per far accadere l’azione sociale.

Una visione reticolare. Qualsiasi visione lineare e finita non funziona. È un progetto bio, aperto, incompleto, continuo, che vive nel tempo. Non esistono procedure e regole, se non alcune “lenti” che ci aiutano a comprendere e riconoscere lo stato in cui è una comunità rispetto all’impatto che vogliamo sostenere e raggiungere.

Una visione dinamica che dà forma allo scopo, al senso per cui quella comunità c’è o dovrebbe esistere o evolvere. Lo chiamiamo Impact Design.

Le tre dimensioni delle comunità trasformative

Le comunità trasformative non eseguono procedure: vivono e prosperano. Per dare loro forma e nutrirle gli strumenti classici non sono sufficienti, abbiamo bisogno di tre dimensioni su cui ci sperimentiamo tutti i giorni.

1. Progettare il centro di gravità con e per le comunità

È un lavoro di sense making, per rendere concreti i linguaggi, i valori e i vissuti che fanno convergere le persone intorno a un progetto o una sfida comune. È questo il perimetro che innesca una progettualità People & Community centred. Dare “forma” al collante, a ciò che è davvero rilevante per le persone e per la comunità e chiedersi: quale impatto si vuole generare? È una dimensione dove, fin da subito, è necessario alimentare un ascolto partecipato e interpretare i bisogni per esplicitare quelli emergenti e individuare ciò che unisce e separa le persone, la comunità; ciò che è rilevante, ciò che è motivante e utile per le persone, le sub comunità e per la comunità nel suo complesso. Da progettisti e maker sappiamo che, oltre all’ascolto, all’esplorazione e all’interpretazione è necessaria anche una buona dose di immaginazione per progettare soluzioni creative migliorative e belle per innescare, “situare” e rendere tangibile la vita delle persone della e nella comunità.

2. Costruire contesti che creano esperienze che abilitano

Nelle comunità trasformative la concretezza non basta. Il senso e il linguaggio condiviso devono essere resi tangibili e condivisibili. Perché i partecipanti possano viverlo e modificarlo, in una dimensione perennemente adattiva ed evolutiva. Progettare e fare il design di rituali collaborativi dà vita alla “scansione temporale”, aumenta la frequenza dello scambio, favorisce la creazione di occasioni e di interazione e supporta il confronto. Punteggia la collaborazione. Ha l’obiettivo di moltiplicare le occasioni di incontro informali che nutrono l’empatia tra persone. Realizzare unità di esperienze, contesti e ambienti di relazione ibridi fisico/digitali, di cui tutte le persone “prendono possesso” per esprimersi liberamente.

3. Animare, nutrire e moltiplicare le interazioni e le condivisioni

Le comunità trasformative sono luoghi di azione. Tanto i progettisti quanto i partecipanti si supportano a vicenda: al momento giusto, con le giuste modalità. Le comunità trasformative hanno bisogno di un gruppo di persone che a volte noi chiamiamo con diversi nomi, da progettisti a community builder a “regia”, che sono al servizio della comunità e sono dentro la vita della comunità. Un gruppo di persone che osserva, raccoglie feedback, dove anche il dissenso è prezioso per comprendere la salute e facilita, supporta lo scambio, stimola la community e aiuta a farla evolvere.

Bisogna prendersi cura delle community

Abbiamo imparato che non ci sono regole, ma un punto fisso: prendersene cura. Quando mancano attenzione e impegno, muoiono.

Come tutti i sistemi viventi, quando nelle comunità mancano l’impegno e la partecipazione perdono di vitalità fino a spegnersi. Impegno e partecipazione non sono promesse a priori, vanno nutrite ogni giorno per portare benefici. Perché la forza delle comunità è sopravvivere in ambienti dinamici, in cui segnali deboli possono portare a nuove soluzioni.

Se cambia il nostro sguardo, allargandosi dalle persone alle comunità, anche il nostro ruolo come designer deve evolvere. Abbiamo imparato che dobbiamo innescare una progettualità continua, perché progettare per e con le comunità significa abitarle, mettendo in crisi le proprie convinzioni. Non possiamo limitarci al disegno di un solo flusso, ma accompagnare un percorso che faccia scalare gli impatti aprendoci a nuove possibilità.

Il 16° numero di Weconomy: guida alla lettura

Il 16° numero di Weconomy vuole fare il punto su quanto sia necessario, per la sopravvivenza e sostenibilità di tutti noi, maneggiare con cura le nostre comunità. Questo numero mette a disposizione, in modalità open source, la nostra esperienza e quella di imprenditori, manager, studiosi, esperti dall’Europa, Asia e America che affrontano il tema delle comunità con varie angolazioni: dall’economia al design, dalla psicologia alla sociologia, dall’antropologia al game design e all’attivismo. Un grazie di cuore a tutte le persone che hanno scelto di dedicarci con generosità tempo ed energia per condividere le loro storie e le loro prospettive.

Nella prima sezione parliamo delle varie scale che possono assumere le comunità. Non è possibile pretendere di dare definizioni rigorose ed esaustive. Per questo, cerchiamo di raccontare le (principali) tipologie di comunità e le dinamiche che le attraversano, piuttosto che cercare di definire che cos’è una comunità o quali ne sono presupposti e caratteri salienti.

La seconda sezione di questo numero si concentra sul ruolo delle persone. Cosa succede all’individuo che si trova inserito in una comunità? I legami non devono necessariamente essere tutti forti: il protagonismo delle persone resta essenziale.

Nella terza sezione affrontiamo il tema dell’impatto delle comunità, che non si misura con metriche semplicemente quantitative. La vita di una community è tutt’altro che facile. Complessità e rischi si affacciano, si potrebbe dire, fin dal concepimento. La nostra esperienza è però quella che esse siano un luogo particolare ed esemplare di vita comunitaria nel business, capace di generare innovazione a ogni livello dell’organismo.

Questa è la materia del futuro

Concludo questa introduzione sottolineando come l’intero numero di Weconomy sia attraversato da un’urgenza, che ci riguarda come persone, ma soprattutto come organizzazioni. Perché, come ci siamo già detti, è dentro le organizzazioni, intese come ecosistemi di persone solidali, coese e motivate, che devono nascere le trasformazioni per scalare impatti rilevanti.

Siamo nel tempo giusto per fare la differenza, per cui anche al più scettico CEO, imprenditore, manager, coordinatore, investitore, startupper o maker consiglio di interessarsene. Questa è la materia del futuro.

A tutti loro in particolare, e a tutti i lettori, è dedicata questa dettagliata rassegna di e sulle community, cui Logotel ha dato il suo contributo in termini di ideazione, perfezionamento, implementazione e accompagnamento. Community dalle storie più o meno lunghe, sicuramente molto varie e in alcuni casi piene di sfide. Crediamo che questo numero di Weconomy offra un ottimo sguardo per imparare da queste “esperienze nelle esperienze”.

Prendete il respiro e buona immersione (clicca qui per scaricare il quaderno n.16 di Weconomy)

Articolo a cura di Cristina Favini, Chief design officer Logotel