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I nuovi significati della responsabilità

La responsabilità, centrale per sviluppare lo smart working in modo consapevole, si incrocia con il significato più ampio del termine sostenibilità, per ridefinire cosa è il lavoro.

Questi ultimi anni ci hanno insegnato tanto. La prima cosa che abbiamo capito è che non abbiamo tutto sotto controllo. Proviamo a pensarci un attimo: ogni volta che capitano eventi clamorosi e drammatici si scatena immediatamente la caccia al colpevole. Spesso questa foga nasconde una verità inconfessabile: il terrore che ciò che è accaduto non abbia colpevoli, nel senso umano del termine. La paura di ammettere che non siamo capaci di stare di fronte a un mondo nel quale accadono cose imprevedibili e, soprattutto, irrimediabili. Eventi che semplicemente non possono essere cancellati per riportare ogni cosa a come era prima.

La nostra capacità di previsione è insufficiente

Ecco che allora un responsabile dev’esserci. Possiamo pensarla come vogliamo su questo punto ma gli ultimi anni ci hanno messo di fronte all’evidenza che la nostra capacità di previsione (e di controllo) è insufficiente. Che ci piaccia o no. A destra, a sinistra, sopra e sotto siamo anticipati e sopravanzati da avvenimenti che facciamo fatica a comprendere e quindi ad affrontare.

E questi eventi ridefiniscono, impongono una conversione, un radicale cambiamento dei punti di vista. Un reset, come si è detto. Il problema però è che non siamo macchine da ricondizionare, ripulire, riprogrammare e riavviare. La nostra prospettiva interna, il nostro punto di vista, cioè come noi vediamo e giudichiamo le cose, conta. Eccome! Per questo non si riparte riprogrammandosi, ma guadagnando un nuovo punto di vista.

Un punto di vista è un altro nome per dire una preoccupazione, un’urgenza

Sono infatti le nostre priorità ciò che (ci) urge a ridefinire, a rigenerare i nostri punti di vista. Ma questi non cambiano da soli, non basta ciò che succede a darcene di nuovi. Occorre una presa di posizione di fronte a ciò che accade, occorre una risposta da parte nostra, una decisione. O ci muoviamo noi, con i nostri desideri, pensieri, paure e speranze o i nostri punti di vista non si muovono, non cambiano, restano gli stessi. Con tutto ciò che ne deriva.

Lasciando atrofizzare i nostri punti di vista, infatti, improvvisamente ci ritroviamo ad abitare un mondo fatto di processi dove il massimo a cui possiamo ambire è beneficiare di qualche iniziativa altrui e/o metterci in fila davanti al chiosco che distribuisce prospettive e scenari confezionati da altri. Delegare il reframing agli altri o semplicemente metterci in scia per sperare di raccattare qualche nuova buzzword maschera quella che è una semplice strategia di sopravvivenza. Peraltro, di questi tempi, con scarsa possibilità di successo.

Adesso però sappiamo che l’iniziativa che è richiesta al business è decisamente un’altra, che lo spettro di risposte (responsabilità) che il business deve dare si è ampliato, non ristretto. Un nuovo senso da dare alla responsabilità sociale e umana del business è quindi diventata una necessità. Sostenibilità ora non è più soltanto sostenibilità ambientale. Ciò che questi ultimi mesi ci hanno messo davanti agli occhi è che la responsabilità sociale di un’impresa economica è chiamata a proporre iniziative e offrire soluzioni anche su terreni diversi, di complessa lettura e gestione. Il Covid-19 ha impietosamente messo in primo piano la vulnerabilità dei nostri corpi, dei nostri stili ordinari di vita e delle nostre relazioni.

Mi concentro su uno dei tanti fronti, quello della responsabilità dell’azienda nei confronti del proprio “cliente interno”, cioè della propria forza-lavoro (nel senso più ampio).

Gli studi più recenti hanno spacchettato i numerosi e diversi fronti che si sono aperti negli ultimi anni nella gestione delle risorse umane. Un articolo di Salima Hamouche sul Journal of Management & Organization ne ha offerto una rassegna ricca e decisamente interessante. Non c’è solo la responsabilità per la sicurezza e la salute sul posto di lavoro o per la gestione delle relazioni (formali e non solo) in contesti organizzativi “terremotati” (o quasi). C’è da mantenere la necessaria cura per le performance aziendali, per il training, per lo staffing e il recruiting.

Un’urgenza però colpisce: la responsabilità di fornire spiegazioni e informazioni – a cominciare certo da quelle pratiche di funzionamento in situazioni di emergenza – senza le quali le persone in azienda non hanno indirizzi (e motivazioni) sufficienti per attivare le proprie energie e capacità in tempi di emergenza. Informazioni nel senso più ampio del termine, quindi anche quelle che riguardano le prospettive di prosecuzione, di trasformazione o di implementazione del business.

Non si riparte riprogrammandosi, ma acquisendo un nuovo punto di vista

Questo è, a mio parere, un fronte decisivo e ancora apertissimo della responsabilità d’impresa nei tempi che stiamo vivendo. Non possiamo infatti negare che la vera partita si gioca a livello del significato e quindi non di singoli “pezzi” di organizzazione da riparare. Non c’è nulla da riparare, a ben vedere, perché non c’è niente di rotto.

Ci sarebbe da riflettere sul perché, nonostante l’apparente fatalità di quanto successo, la nostra reazione possa essere ancora quella di tentare di progettare una risposta, cioè di dare, attraverso pensieri e azioni, una forma nostra alle cose. C’è una prospettiva sensata da offrire e passi chiari da proporre e dialogare. Sì, perché coinvolgere i propri stakeholder in una risposta da offrire a questo tempo è oggi una delle sfide etiche decisive delle imprese. E questo coinvolgimento non può avvenire senza istituire legami e relazioni stabili, consistenti e convincenti. E questa è una iniziativa che il business deve assumersi nei riguardi, innanzitutto, degli attori interni della propria organizzazione.

Joanne Lipman sul Time Magazine scriveva che il lockdown e, per molti, il lungo periodo forzato a casa, è stato “il momento per letteralmente ridefinire che cosa è il lavoro”. Avere risposte solide, consistenti da dare a collaboratori e impiegati attraversati da questa domanda è, di questi tempi, un’occasione che un management aziendale non può mancare. Una scelta forse da preferire a impegni più facili e alla moda. Non si può tuttavia dimenticare che una risposta vera, adeguata e convincente a questa domanda implica proporre un compito, una rigenerazione di cui essere all’altezza.

Articolo a cura di Matteo Amori