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Come sta la tua community? Perché, con cosa e come misurarla

Una ricognizione sugli strumenti e le modalità per misurare le community. Non per estrarre, ma per generare valore.

Dal 2001 Logotel progetta, stimola, lavora CON e PER le community. CON le community, perché agendo su di esse si riesce a generare impatto concreto nel sistema più ampio in cui sono collocate, sfruttando quello che chiamiamo community centered design [vedi BOX 1] e la community psychology [vedi BOX 2].

PER le community, perché il presente e il futuro delle organizzazioni si fonda, e non può più prescinderne, su community in salute, con persone ingaggiate, motivate e soddisfatte, pronte a offrire il meglio di sé stesse.

In questo articolo proveremo ad accennare a una serie di elementi chiave e di modelli pratici codificati in anni di esperienza diretta e di studio che consentono di interpretare le community.

Partiamo dal perché misurarle

Misurare una community serve, innanzitutto, per comprenderne lo stato di salute, conoscerne le caratteristiche intrinseche e, di conseguenza, saperne valorizzare al meglio il potenziale esprimibile, nel suo insieme e dai singoli membri. Monitorare in tempo reale il mood della community e la sua variazione in relazione a cambiamenti avvenuti nel contesto aziendale (grazie ad algoritmi di AI per la sentiment analysis), individuare le figure emergenti o i leader informali di un’organizzazione o mappare la quantità, la qualità e la direzione delle relazioni che nascono e si sostanziano nel network [social network analysis] sono solo alcuni degli esempi che ci aiutano a misurare lo stato di salute di una community.

Il Sense of community index

Tra i numerosi indicatori relativi alla misurazione dello stato della community, merita una menzione particolare la possibilità di poter rilevare il Sense of Community, indicatore che può essere semplificato come l’intensità del legame, la forza di attrazione che un membro sente nei confronti della community stessa. Il Sense of community Index [vedi BOX 3] è estremamente predittivo per definire l’engagement e il commitment di chi ne fa parte e la probabilità che, agendo sulla community nel suo complesso, si possa influire sui comportamenti dei partecipanti, attivando dinamiche sociali o su scala individuale.

Misurare una community permette di capire che impatto genera

In secondo luogo, misurare una community permette di quantificarne la manifestazione estrinseca, ovvero di capire se, come e quanto quella community stia generando un impatto concreto nel sistema geografico, organizzativo, sociale o politico di riferimento. Più che concentrarsi quindi sullo stato di salute di una community, in questo caso si punta a riscontrarne i risultati ottenuti: l’impatto.

Nei casi in cui la community sia nata spontaneamente, come spesso accade in contesti in cui persone che hanno interessi o caratteristiche rilevanti in comune si aggregano in gruppi/community, e non abbia una mission predefinita, l’analisi serve principalmente a qualificare che tipologie di impatto stia effettivamente contribuendo a generare. Una community di quartiere di una periferia urbana auto formatasi, in cui i membri hanno in comune la pertinenza geografica della propria abitazione, potrebbe avere impatto (non necessariamente positivo e non necessariamente studiato a tavolino) sulla qualità della vita degli abitanti e sul benessere percepito, sulla sicurezza dell’abitato, sulla nascita di attività commerciali, sul supporto delle figure più deboli, sul costo delle abitazioni e così via.

Qualora invece la community sia nata by design o venga “nutrita” dall’esterno, in altre parole nasca con precise aspettative di risultati da ottenere e abbia risorse specifiche assegnate per sostenerla, la misurazione dell’impatto generato non è solo esplorativa (aspetto che va mantenuto per identificare le conseguenze inattese sul sistema di riferimento) ma anche mirata e quantitativa: una community che nasce ed è finanziata per supportare i clienti di un brand porterà come dote della sua stessa fase progettuale le aree di impatto e gli obiettivi evidenti (spesso espressi sotto forma di OKR) da ottenere.

Alcuni esempi possono essere la diffusione di una cultura aziendale condivisa o la propagazione di comportamenti collaborativi o di competenze e conoscenze all’interno della community di uno specifico settore aziendale, per esempio il marketing, rilevabile come incremento delle relazioni tra colleghi, la generazione di innovazione cross reparto e la generazione di occasioni di business supplementari. Tutti indicatori che vanno monitorati nel tempo.

Misurare le community per intuirne lo sviluppo

Tra gli altri – numerosi – buoni motivi per misurare una community, non può mancare la possibilità di raccogliere evidenze utili a intuire la direzione di sviluppo che la community stessa sta avendo (predictive analytics) e, quindi, per definire progettualmente come sostenerla o reindirizzarne lo sviluppo. La community degli addetti nei negozi di un brand internazionale genera evidenze comportamentali e di ingaggio dei membri che, integrate ad altri dati come i risultati delle vendite o gli indicatori di performance del negozio e dello staff (business intelligence), permettono di intercettare, e quindi di intervenire in tempo, su fenomeni come il quiet quitting, imminenti dimissioni, calo della motivazione o i loro auspicabili corrispettivi positivi e le conseguenti eccellenze da valorizzare.

Da un’analoga intersezione tra le informazioni sullo stato umorale o di stress della community e le rilevazioni sugli impatti sull’efficacia ed efficienza operativa o sull’aumento dei ricavi, si potrà capire quando sia il momento migliore per lanciare call to action o attivare interventi formativi mirati o, se si tratta di casi individuali per i quali si percepisce un decremento del livello di ingaggio e partecipazione, di valutare attività di caring e retention.

Dimostrare il ritorno dell’investimento di una community, ottenere dati e informazioni utili per comprendere aspetti evolutivi del sistema/organizzazione/mercato nei quali la community nasce, verificare l’efficacia di modelli di behavioural change o strategie di impatto mirate sono solo alcuni dei vari perché della misurazione delle community.

Cosa misurare delle community?

Dagli esempi portati argomentando del perché misurare, pare evidente come le community abbiano nature, campi di applicazione e identità talmente diverse da rendere praticamente impossibile definire un modello di misurazione e analisi valido per tutte. Una tribe all’interno di un gruppo bancario che diventa la casa sicura della comunità LGBTQ+, la community dei responsabili HR delle aziende italiane alle prese con l’integrazione di politiche dedicate alla Diversity, Equity & Inclusion, quella dei ricambisti di un marchio automobilistico o quella degli studenti dei master di una delle facoltà europee più quotate, divergono nei loro pilastri costitutivi e nelle finalità primarie al punto di non poter avvalersi degli stessi parametri di analisi.

Cinque indici per misurare gli elementi chiave della community

Esistono, però, delle grandi categorie di indicatori che per comodità a volte raccogliamo in indici sintetici. Opportunamente selezionati e modellati in coerenza con la specifica natura della community, questi indicatori possono orientare la scelta degli strumenti di analisi. Da un lato, per esempio, abbiamo gli indici che testimoniano le dinamiche transazionali, quelle che fanno capire quanto e quale tipo di scambio di valore pratico avvenga nelle community (impatto generato da/per/grazie a ciascuno degli stakeholder coinvolti). Dall’altro troviamo quelli relazionali, basati sulla quantità e la qualità delle relazioni che si attivano in una community, indipendentemente dal risultato pratico e operativo ottenuto.

Pur non avendo la possibilità di scendere in questo articolo nel dettaglio di ciascuno degli indici seguenti, possiamo dire che quando si tratta di misurare gli elementi chiave della community ci si possa avvalere di cinque ambiti di osservazione e quantificazione:

Impact on Business & Governance Index;

Engagement & Sense of Community Index;

Behavioural Change (Management) Index;

Relational & Social Capital Index;

Social, Environmental, DEI sustainability Index.

A seconda della natura della community in analisi, la “forma” ottenuta da una possibile rappresentazione grafica dei suoi indici può essere significativamente diversa, e quindi può rappresentare una sorta di impronta digitale, l’espressione del DNA collettivo di quella community in quel momento.

Per valorizzare ciascuno dei cinque ambiti, si deve far ricorso a misurazioni, rilevamenti e osservazioni di key result più specifici che compongono, appunto, gli elementi dell’algoritmo che portano al valore quantificabile di quell’indice. Per intenderci, l’indice di impatto sul business e la governance prevede la valutazione di parametri direttamente imputabili o correlati con la community tra cui l’aumento dei ricavi, la riduzione dei costi, l’incremento della velocità operativa, la generazione di capitale umano (es. knowledge, how-to, up-skilling, reskilling), le innovazioni generate, il miglioramento di processi operativi, la digitalizzazione, i percorsi di crescita ecc…

Come misurare una community?

Avendo esplorato “il perché” e “il cosa”, rimane l’annosa questione del “come”. Una necessaria premessa consiste nel sottolineare come sia molto difficile, se non impossibile, tentare di misurare qualcosa che in fase di progettazione non è stato pensato in maniera tale da generare evidenze tracciabili.

Il punto di partenza di ogni misurazione è, infatti, reperire i dati oggetto di analisi, che devono non solo esistere ma anche essere osservabili: una buona fase di progettazione non può lasciare questo punto al caso. Il passo successivo è pensare e progettare modalità attraverso cui tracciarli e digitalizzarli/quantificarli. A questo punto, si passa a raccogliere i dati in forme che siano analizzabili attraverso strumenti, software, e metodi adeguati al tipo di dato. Da qui in avanti, le varie branche della data science la fanno da padrona, sempre però guidate dal buon senso e dalla conoscenza della community dei community manager.

Il rischio è valutare con metri e modelli inappropriati alcuni dei parametri più importanti di una community

Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, nella prima sezione dell’articolo abbiamo citato alcune delle modalità che consentono di analizzare le diverse tipologie di dati in maniera pertinente. Occorre fare attenzione a non cadere nell’errore di valutare con metri e modelli inappropriati alcuni dei parametri più importanti di una community: sembra superfluo dirlo, ma non si può misurare lo stato emotivo dei membri di una community (di solito riassumibile in score sintetici di positività e carica) con le stesse unità numeriche di un incremento percentuale di produttività o con metriche economiche (euro risparmiati).

Le piattaforme di collaborazione e social di oggi consentono di tracciare e analizzare nativamente una serie di elementi utili all’analisi dello stato di una community. Per portare un esempio che sta diventando sempre più diffuso, la piattaforma Viva di Microsoft permette di tracciare e restituire sotto forma di dati actionable molte informazioni del contesto aziendale collaborativo che contribuiscono ad almeno due dei cinque indici citati in precedenza (per esempio, la quantità e la direzione delle interazioni che avvengono con i nostri colleghi). In ogni caso, la diversa natura degli indicatori richiede competenze multidisciplinari proporzionalmente ampie.

È compito dei community designer realizzare sistemi di generazione di output osservabili anche nelle relazioni tra membri

Per chi progetta o gestisce community utilizzando un approccio People & Community centred, potrebbe risultare più difficile afferrare dati che per loro natura rientrano nella sfera delle interazioni e reazioni fisiche, mentali e psicologiche umane, apparentemente più difficili da digitalizzare e quantificare. È però compito proprio dei community designer non solo progettare interventi e contesti utili per il fiorire della community, ma anche realizzare sistemi di generazione di output osservabili anche nel dominio fisico delle relazioni tra membri, per esempio un evento, un raduno, un incontro di gruppo o lo svolgimento delle quotidiane attività lavorative.

Fortunatamente, le esperienze fisiche legate agli esseri umani producono quasi sempre fenomeni osservabili che o sono definibili in termini comportamentali (azioni specifiche che avvengono oppure no) o si somatizzano come espressione corporea: entrambe le conseguenze sono categorizzabili, quantificabili e digitalizzabili. Le emozioni espresse dai testi postati in una community o le espressioni facciali che sottendono specifiche attivazioni emotive sono oggi tracciabili e classificabili da sistemi di intelligenza artificiale, sempre più accessibili e potenti.

Allo stesso modo, dove non arriva la tecnologia, può farlo un altro essere umano. In un contesto retail, per esempio, è abbastanza usuale pensare ai comportamenti messi in atto dai commessi che avvengono in un negozio come oggetto di osservazione puntuale registrata dai mistery shopper, dati che possono essere poi digitalizzati e valutati in termine di adozione dei comportamenti desiderati.

Per misurare una community servono anche creatività e buon senso

E quindi, per capire come misurare una community, potrebbe servire una certa dose di creatività e buon senso. Qualche anno fa mi fu di ispirazione l’attività di tracciamento messa in campo dal responsabile dei negozi giapponesi di un noto brand del lusso che, durante le visite ai negozi di Tokyo mirate a ipotizzare una struttura di OKR per reindirizzare le performance del brand, si limitava a rilevare un unico valore: il numero di sorrisi che vedeva sui visi dei commessi e dei clienti. Il paradosso della nazione più digitalizzata al mondo che usava questo espediente per un rapido check-up era quanto mai sensato e riapplicabile in infiniti altri contesti.

In sintesi, come misurare una community? Raccogliendo informazioni in formati quantificabili, analizzandole con gli strumenti tecnici e le discipline teoriche pertinenti ed elaborandole con metodologie specificamente calibrate sulla natura di ogni community. Non certo facile, ma sicuramente possibile!

Appendice

BOX 1 – Community centered design

Una community è fatta da individui, ma le logiche e le dinamiche di relazione e interazione tipiche di un’aggregazione sociale richiedono che l’approccio progettuale faccia un passo avanti rispetto al più classico user centered design. Tenere sempre presente l’impatto sull’ambiente e la realtà sociale della community e coinvolgere i giusti stakeholder sono dei must have che derivano dal porre la community – nel suo complesso – al centro dell’attenzione. Community da considerarsi come l’unità principale di analisi e come la destinataria primaria di interventi e iniziative che siano inclusivi, partecipatori (almeno parzialmente) e accettabili culturalmente.

L’approccio community centered porta a decisioni e soluzioni che possono essere controintuitive rispetto a quello user centered (non è affatto detto che la soluzione migliore per la community sia quella meglio recepita dal singolo partecipante). Anche nel campo della misurazione della community, gli indicatori più significativi saranno quelli che nascono da progettazioni che mappano, identificano e considerano gli asset, le esigenze, le relazioni e le dinamiche di gruppo piuttosto che i comportamenti del singolo membro.

BOX 2 – Community psychology

Invece di concentrarsi sull’individuo, come accade nella psicologia classica, questo ramo della psicologia esamina lo sviluppo delle persone nei contesti relazionali, nella società e nelle realtà di interazione (organizzazioni, famiglie ecc.) più vicini a loro. Nata con lo scopo di migliorare la qualità della vita attraverso la ricerca e l’azione collaborativa tra persone, la community psychology offre numerosi spunti per effettuare analisi su membri della community, sui modelli organizzativi, i sistemi (micro e macro) e le modalità di relazione tra persone.

BOX 3 – Sense of Community Index

Con Sense of Community si intende il senso di appartenenza, connessione e interazione/supporto reciproco tra le persone di una community o, più in generale, di un gruppo. Si tratta di un elemento chiave della community psychology ed è un indicatore altamente predittivo della partecipazione attiva, utilissimo per quantificare le modalità più efficaci di interazione in contesti sociali e per capire come fare evolvere le community. Il nome deriva dal celebre working paper di David W. McMillan e David M. Chavis, apparso nel 1986 sul Journal of Community Psychology. Nell’articolo viene definito un primo elenco (aggiornato in tempi più recenti ma sostanzialmente coerente con l’originale) composto dai quattro elementi chiave: membership, influence, integration & fulfillment of needs, shared emotional connection. Rappresentano gli ambiti che definiscono il Sense of Community, il cui “Index” è lo strumento ufficiale rilasciato da McMillan e Chavis per renderne possibile la misurazione.

BOX 4 – Estrarre o generare capitale? Una miniera eco-sostenibile

Nel corso degli ultimi 20 anni, forti del successo di fenomeni di portata globale come Facebook, YouTube e svariate altre piattaforme in qualche modo attinenti all’idea di community, chi fa marketing, comunicazione o si occupa di vendite ha affinato metriche e tecniche finalizzate a conseguire i propri obiettivi di business.

Le metriche di engagement dei social media, basandosi a loro volta su quelle di digital marketing e dei media tradizionali, hanno esasperato la misurazione dei dati come mezzo per individuare il modo migliore per massimizzare l’estrazione di valore da gruppi di persone resi raggiungibili da tali piattaforme. Frequenza, tempo di permanenza, argomenti letti, profilazione per contenuti, modalità e situazioni di accesso: da questi dati si è passati molto rapidamente a indicatori complementari che sintetizzano, e ne definiscono il costo, la possibilità di prelevare parte del valore dalle community (costo di acquisizione, per clic, costo per feedback, valore dei dati personali raccolti ecc.).

I modelli presentati in questo articolo non si basano solo su quante risorse si riescono a estrarre dal capitale – o sarebbe meglio dire dai capitali – della community (denaro, dati, tempo, idee, attenzione, fiducia, informazioni, esperienze ecc.) ma anche, e soprattutto, su quanto la community sia in grado di generarne di nuovi o rigenerarne le scorte da cui si è attinto smodatamente. La sfida per chi si occupa di community è passare dall’idea di considerarle come miniere da saccheggiare per sfruttare capitale economico, sociale, culturale e umano esistente a realtà organiche in cui questo tipo di valore è generato e rinnovato, mettendo le persone in un contesto sicuro e adatto per esprimere sé stesse.

BOX 5 – I forzieri della community

Quando si parla del valore, del “capitale” che una community è in grado di raccogliere o generare, da cui può attingere o che può riversare nel sistema nel quale si colloca, ci sono almeno quattro differenti diramazioni che vanno tenute in considerazione.

Economical capital, costituito dalle risorse come denaro, beni, e gli asset tangibili. Può essere investito, raccolto, aumentato, ridistribuito per ottenere gli obiettivi della community.

Human capital, si può definire come la somma delle conoscenze, delle competenze, delle capacità pratiche e operative dei membri della community. Risorse che in un contesto altamente sviluppato in termini di Social Capital sono rese facilmente accessibili, condivisibili e sfruttabili da tutta la community e che si incrementano grazie alla collaborazione e alle occasioni di apprendimento e condivisione.

Social capital (termine da considerare nell’interpretazione delle scienze sociali), costituito dalle relazioni, dalle connessioni, dalla fiducia e dal senso di sicurezza che riguardano i membri della community. È una delle leve fondamentali perché i membri della community possano accedere a risorse e altri tipi di capitale grazie alla community stessa e decidano di investire (commitment) nella community.

Cultural capital inteso come le norme, le regole, la storia, le storie, i ruoli, le tradizioni, i gusti, i valori, i linguaggi e i sistemi simbolici tipici e proprietari della community stessa. Delimita i confini dell’identità della community e ne qualifica e diversifica il dominio, cioè l’elemento chiave che i membri hanno in comune tra di loro, il motivo di aggregazione.

Articolo di Daniele Cerra, Partner e (Digital) Innovation Officer Logotel – pubblicato su Weconomy 16 – Una visione completamente diversa